Mar 19, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Ventigrammi In evidenza

Pubblicato in Editoriale
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Nei primi anni del secolo scorso, nel piccolo ospedale municipale della cittadina di Haverhill, nella contea di Essex nello stato del Massachusetts, il dottor Duncan MacDougall, servendosi di una bilancia Fairbanks alla quale aveva adattato un telaio di legno su cui aveva assicurato un letto, in tempi diversi e secondo le disponibilità che la contingenza gli offriva, aveva osservato sei diversi pazienti in fin di vita, allo scopo di misurarne, con la migliore approssimazione possibile, ogni eventuale pur minima variazione di peso al momento del trapasso.

 

La cosa non doveva apparire neanche allora del tutto azzardata o bislacca, né priva di interesse, essendo note nell’ambiente, per così dire, già da secoli, ad esempio, le ricerche quantitative sul metabolismo condotte da Santorio Santorio, medico accademico vissuto tra Capodistria e Venezia, tra Padova, dove si addottorò e la Croazia e, forse, la Polonia, che nel suo De statica medicina, pubblicato nel 1614, aveva già dato conto dell’incidenza  delle variazioni di peso dell'organismo, sia in condizioni normali che patologiche, arrivando a mettere a fuoco quella perspiratio insensibilis che noi conosciamo più o meno come perspirazione o traspirazione e che, se non ne è indice, quantomeno accompagna i fenomeni che interessano il corpo umano.

Se non che, il pesabile di Santorio Santorio, a ben guardare, era comunque materia concreta, mentre quel che MacDougall avrebbe tentato di ponderare, nelle sue intenzioni speculative e pretesamente nei suoi effetti, nell’ottica dello sperimentatore clinico agli albori del Novecento, domiciliato a nord della Grande Boston e idealmente scorrendo l’Atlantico di là a un passo, doveva risultare, semplificando, il peso dell’anima. 

La notizia dell’esperimento, che poco aveva di scientifico, rimbalzò comunque sulla letteratura dell’epoca, sull’American Journal of Psychical Research e sul numero di luglio del 1907 della American Medicine, essendosi guadagnato già a marzo di quello stesso anno anche un trafiletto sul New York Times.

Sottrarre l’incorporeo al corporeo, l’invisibile al visibile, separare il materiale e l’immateriale, e ponderarli entrambi, non è comunque operazione facile, né priva d’insidie. Volendo avvicinare questioni tanto apparentemente aleatorie alla nostra quotidianità, basterebbe, per dire, osservare la relazione tra alimentarsi e perdere peso o il fenomeno reciproco dell’avvertire la necessità di assumere rilevanti quantità di cibo non per concrete necessità nutritive ma magari per colmare debiti, insufficienze o vuoti emotivi o mentali.

E se pure volessimo anche noi adattare, chessò, una bilancia da salumiere o da macellaio per ricavare il peso delle cose umane, per separare, non si saprebbe bene in quale momento propizio, come in un esperimento degno del teatro Elisabettiano di Shakespeare, il debito dalla libbra di carne, indicare il momento esatto e la quantità finita del perdere di consistenza della tragedia ma non del dramma?

In realtà, anche la questione originaria sarebbe più complessa di come l’aveva proposta l’internista di Haverhill, perché il profluvio di fonti e le migliaia d’anni di riflessione e di speculazione hanno spesso portato a dire che non c’è soltanto una dicotomia anima/corpo, leggerezza/peso, da considerare, ma un che di più articolato e di complesso, che non soltanto ripartisce la consistenza umana – e la sua esperienza, di conseguenza – in una tripartizione quale corpo, anima e spirito, o nella quadripartizione antroposofica dell’Io, del corpo astrale, del corpo eterico e del corpo fisico, per dar conto soltanto degli esempi più diffusi e conosciuti, ma che esistono diversi piani dell’Essere suscettibili di compenetrarsi in ogni istante, anzi certamente presenti in ogni istante, tanto da poter variare – perché no? – la densità stessa della materia che sembra comporli.

Ben potrebbe darsi, insomma, che nel momento estremo osservato nelle vite dei suoi sei poveri pazienti, il volenteroso dottor MacDougall, si, il buon vecchio Duncan, potesse essere chiamato ad annotare una variazione di peso non dei loro corpi, bensì della piattaforma stessa o di uno dei bracci della Fairbanks. Il mondo è così: quello che comprendiamo è sempre solo una parte minima di quel che ci sarebbe da sapere.

E il sapere è una cosa strana, se ci si pensa, aleatoria più di tutte, e pesante proprio perché non pesa niente. Se, mettiamo, volessimo davvero dargli peso, probabilmente finiremmo come nella strofa di una celebre canzone di Giorgio Gaber, strofa lamentosa: «Anche per oggi non si vola / Una cassa enorme che mi porto sulla schiena / Che mi schiaccia, una cassa tutta piena di libri / E di oggetti accatastati, di libri ingialliti, di carta stampata / C'ho una cassa sulle spalle / Che palle! / Questo pacco di coscienza / Com'è ingombrante, c'è proprio tutto / Dalla logica alla scienza / Da Marcuse fino a Dante / C'è anche Fellini, com'è pesante / No, no, no...».

Del resto, l’analisi – e la psicoanalisi, sua figlia diletta – è così: «dietro un uovo c’è sempre una mamma che cova», dice il signor G. nel monologo che introduce la canzone, come fissato nell’antologia ragionata La libertà non è star sopra un albero (Einaudi, 2002), antologia scorrendo la quale, al contempo, si può godere dell’illuminante abbrivio dell’introduzione firmata da Massimo Bernardini: «Cos'è, cosa dice, scrive e fa un intellettuale, in una stagione confusa come la nostra? È uno che mentre gli altri sembrano fare i conti con le cose più spicciole guarda un po’ più in là e un po’ più dentro. Le parole di tutti non gli bastano, per lui vogliono dire un'altra cosa. Perciò le deve riscoprire ripulendole da ovvietà ed equivoci. Perché l'intellettuale vero le parole le usa tutte, le più semplici come le più difficili, e non ne teme nessuna. [...] Quando un intellettuale non spiace più a nessuno non è che serva a molto.».

Eppure, a questo mondo c’è persino modo e modo d’essere intellettuali, e soprattutto la realtà stessa, quella che impropriamente sempre definiamo realtà, ha sempre la grazia di stupirci, semplicemente agendo sulla propria intrinseca densità.

Non mi viene esempio migliore, sul punto, che quello che so trarre in diversi punti dalle pagine di uno splendido libriccino che raccoglie alcuni appunti di viaggio di Walter Benjamin e di Asja Lacis su Napoli, (Napoli porosa, a cura di Elenio Cicchini, edito nel 2020 per i tipi della gloriosa Libreria Dante & Descartes della Capitale partenopea).

Una porosità assieme mistica e socratica: «Qualche anno fa un sacerdote, per avere infranto il codice morale, fu portato in giro per le strade di Napoli su un carretto. La folla lo accompagnava lanciando formule di malaugurio. Quando poi a un angolo s’intravide un corteo nuziale, il sacerdote si levò in piedi e fece segno di benedire. In quello stesso istante, tutti coloro che seguivano il carro si genuflessero.

Una porosità finanche materica, architettonica: «Un'altissima scuola di regia quella che si svolge sui gradoni delle scalinate – mai del tutto scoperte, e tuttavia neppure rinchiuse nelle sorde trombe delle case nordiche, queste si precipitano verso l'esterno, compiono una rotazione ad angolo, e scompaiono per potersi gettare all'infuori un'ultima volta.».

Una porosità, infine, esistenziale: «Questa musica è residuo dei giorni di festa passati e, insieme, preludio di quelli futuri, poiché il giorno di festa permea irrefrenabilmente ogni singolo giorno di lavoro. [...] Un granello di domenica si cela dietro ogni singolo giorno della settimana, e quanti giorni della settimana sono contenuti in questa domenica!».

La leggerezza può stare tutta qui, nel limite dei venti grammi, dunque, per tenerla al riparo da riflessioni ermeneutiche troppo pesanti, quasi insostenibili, qui, gradata soltanto dalla nostra personale capacità di volare, che sia volare come vola il tacchino in una vecchia canzone di Francesco Guccini, o che sia librarsi in sella a Pegaso nella dionisiaca visione nicciana.

Di questo contiamo di darvi conto, per cenni, nel presente numero della rivista. Dimenticavo: secondo MacDougall l’anima peserebbe più o meno ventuno grammi. Buona lettura.

Rocco Infantino

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

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