Non era la prima volta che per seguire i miei ragionamenti o le mie suggestioni – il confine non è adeguatamente presidiato – mi imbattevo nella difficoltà di reperire un volume che mi appariva necessario. Di Luce D’Eramo, scrittrice dalla biografia particolare e per certi versi, per dirla così, controcorrente, facilmente si reperiscono quasi tutti gli scritti: dai romanzi, Deviazione su tutti, fino al più recente Ultima luna, o il suo fondamentale studio su Ignazio Silone, o Si prega di non disturbare, per citare qualcosa. Quel che mi è invece risultato non facile è stato mettere le mani su una delle rarissime copie rintracciabili di Cruciverba politico. Come funziona in Italia la strategia della diversione, edito per i tipi di Guaraldi, finito di stampare nel gennaio del 1974 e ritirato da tutte le librerie appena poche settimane dopo[1], pare dallo stesso editore, per via di pressioni ricevute[2].
Cruciverba politico è un saggio, uno studio meticoloso su come la stampa e i telegiornali abbiano trattato un caso molto particolare della cronaca politica e giudiziaria italiana, accaduto in un periodo delicato della vita pubblica del Paese e di come su questo si sia fatta informazione.
Tralascio l’emozione che ho provato nell’aprire la brossura palesemente intonsa, dal prezzo d’allora di duemilacinquecento lire, che so essere una delle poche, poche copie salvate verosimilmente dal macero, perché non voglio cedere a mia volta a uno dei vizi di cui leggo, e cioè trasformare il “cosa” in un “come”, fare colore per obliterare il fatto.
Il fatto cui si riferisce lo scritto è la morte – comunque violenta – di Giangiacomo Feltrinelli; i fatti esaminati dall’autrice sono come questa notizia sia stata trattata dagli organi di informazione. Più precisamente, si dovrebbe dire, come ad opera di questi, di giornali e radiotelevisione pubblica, la causa della morte dell’editore e le sue naturali implicazioni siano state o non siano state scandagliate nella pubblica informazione, fino ad arrivare ad essere sostituite, per diversione appunto come apertamente dichiara il sottotitolo, e per vari gradi di allontanamento, fino ad arrivare a consumarsi quasi del tutto in giudizi e tattiche politiche sulla natura di un reato d’opinione, quello previsto e punito dall’articolo 656 del codice penale – del Codice Rocco per intendersi – fino a confondersi, se non dissolversi, in argomenti di costume, in paragoni improbabili, in dispute apparentemente da pennaioli o primedonne, che nulla potevano o nulla intendevano contribuire a mettere in luce dell’accaduto.
Il lavoro si apre con una dettagliata esposizione della «Topografia politico-economica dei più noti quotidiani italiani» esaminati nel periodo da marzo a maggio di quel 1972: ottantadue testate comprese le doppie testate e le doppie edizioni, con i dati delle relative tirature, dichiarate o accertate, tirature divise per giorni feriali e giorni festivi. Nella primavera del ’72, come ricostruisce D’Eramo, più dell’ottantadue per cento di queste testate «erano strumenti del governo e del capitale[3]». Queste testate, alle quali aggiunge anche i fogli locali quando questi nel periodo esaminato s’interessino della vicenda, l’Autrice puntualmente le divide, facendo riferimento all’editore e alla proprietà per ciascuno, per le aree politiche o economiche di riferimento, assegnandole quindi diligentemente alla sinistra, al centrosinistra, al centro, al centrodestra e alla destra dello schieramento parlamentare, agli organi ufficiali di partito e ai singoli politici di riferimento, alle aree della destra e della sinistra extraparlamentare, all’area governativa specificamente intesa, e poi alle curie vescovili, alla Confindustria, agli armatori e agli industriali del petrolio o dello zucchero, arrivando per alcune a indicare i passaggi dei relativi pacchetti azionari, quando avessero effetti nel periodo di riferimento, per dire, da o verso l’ENI, da o verso il finanziere Sindona.
E il panorama della stampa italiana agli inizi degli anni Settanta è proprio questo: una tiratura complessiva di sette milioni di copie, di cui poco più di cinque milioni sono quelle effettivamente vendute, nessun quotidiano che abbia ancora assunto carattere e dimensioni nazionali, due grandi giornali “superregionali”, Il Corriere della Sera e La Stampa, un solo giornale di partito, L’Unità, che con le sue trecentocinquantamila copie abbia carattere di giornale di massa, mentre specificamente a sinistra sono da rilevare le esperienze interessanti di Paese-sera di Roma e de L’Ora di Palermo; per il resto, scarsa corrispondenza effettiva tra orientamento politico delle testate e inclinazioni dell’elettorato, per così dire, ma una certa capacità di questa carta stampata di influire comunque sul clima generale del Paese.[4]
Parallela alle cifre della diffusione dei quotidiani tra la popolazione, che conta comunque meno di dieci copie ogni cento abitanti, è la concorrenza della televisione di Stato, la Rai-TV controllata economicamente dall’IRI e politicamente dal Governo, anzi dal partito dominante, che informa invece circa il cinquanta per cento della popolazione nazionale e il cui telegiornale delle 20.30 ha un ascolto quotidiano di quattordici milioni di adulti.[5]
In quel periodo seguito al Maggio francese e all’espandersi del clima sessantottino, forse è bene tenerlo a mente, l’Italia era già percorsa da anni da quel fenomeno poi divenuto famoso come “la strategia della tensione”, scandito da scontri, atti di terrorismo, attentati e stragi di diverso segno e opposti estremismi, come si tendeva a considerare all’epoca, puntualmente differenti tra loro per logica politica, provenienza, modalità di esecuzione, ma tenuti insieme, si sarebbe appurato solo dopo, dall’elemento comune costituito dall’attività depistatoria di una parte degli apparati dello Stato;[6] aveva conosciuto, sopra tutti, il 12 dicembre 1969, la strage di Piazza Fontana e gli attentati contemporanei di Milano e Roma. Per Piazza Fontana, nell’immediato, prima cioè che prendesse consistenza una realtà più complessa e di segno diverso – per quel che sarebbe venuto alla luce anche dopo e non fosse rimasto mangiato dai bordi dell’ombra – subito si era attinto agli ambienti anarchici e si erano consumati il fermo di Giuseppe Pinelli, che in quell’occasione sarebbe andato incontro al proprio destino, e l’arresto di Pietro Valpreda, che sarebbe dovuto essere mandato assolto, in seguito.
Nei primi mesi di quel 1972, alla crisi di gennaio del Governo Colombo, nel febbraio subentrava il primo Governo Andreotti, monocolore privo di maggioranza parlamentare, in vista delle elezioni politiche anticipate del 7 - 8 maggio; insomma, come riportava in una propria nota un dirigente del servizio segreto di allora, il Servizio Informazioni Difesa, «l’Europa preoccupa gli americani. L’Italia già figura nei programmi della Casa Bianca [...] come “regione instabile”, da “sorvegliare” ed eventualmente “da puntellare”»[7].
Mettigli i baffi, levagli i baffi.
Dunque, i quotidiani italiani del 16 marzo 1972 aprono tutti con la notizia del rinvenimento del cadavere straziato di quell’uomo sotto un traliccio a Segrate, fornendo vari particolari, e riportandone il nome, come compare sui documenti trovatigli addosso, e i documenti dicono Vincenzo Maggioni. Tuttavia, quello stesso giorno, un comunicato dell’agenzia France Presse di Ginevra già dichiara: «Qui circola una voce, non controllabile, secondo la quale l’editore Feltrinelli, amico di Valpreda, sarebbe stato assassinato in Italia»; la voce sull’identificazione in Feltrinelli del cadavere di Segrate viene diffusa dall’ANSA in Italia dopo le tredici dello stesso giorno, nel pomeriggio all’Università statale di Milano durante una conferenza stampa sul fatto vengono diffusi comunicati in cui si parla dell’assassinio dell’editore, e per gli autori di alcuni di essi parte subito la denuncia per vilipendio e calunnia[8]. Solo con i giornali della sera, e senza che fino ad allora si fosse citato il comunicato della France Presse, i lettori di Momento-sera potevano leggere «il terrorista ucciso dalla sua dinamite forse... è Feltrinelli», mentre su Paese Sera era riportato «Ipotesi sconcertante: è Feltrinelli? Sarebbe stato assassinato e portato sul luogo dell’attentato». Infine, al telegiornale delle 20.30 del medesimo giorno, i telespettatori ascoltano una dichiarazione che s’apre con la frase «Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato». Nella dichiarazione si spiega come dalle bombe del 25 aprile si fosse tentato di attribuirgli il ruolo di ispiratore e di finanziatore degli attentati attribuiti agli anarchici, che in quell’ottica il profilo stesso dell’editore, amico di Fidel Castro e legato ai movimenti di liberazione dell’America Latina e contemporaneamente la sua ricchezza e la sua posizione sociale ne facessero il personaggio ideale per mettere in pace la coscienza dei benpensanti italiani, che quell’assassinio era la risposta della “reazione internazionale” allo smascheramento della strage di Stato – e qui era un riferimento al processo Valpreda – e che «così si capisce perché sei o sette candelotti possono esplodere in mano a Feltrinelli lasciandone integro il volto per il sicuro riconoscimento»[9].
Il documento era firmato da diversi nomi noti e dal leader del movimento studentesco, dalla stessa casa editrice e dalle librerie Feltrinelli, ma il nome su tutti ai quali la tv diede risalto e che fatalmente rimase nei giorni successivi nella memoria dei telespettatori e poi nell’opinione pubblica fu quello di Camilla Cederna.
Luce D’Eramo si trova quindi presto a seguire altre strade che quella dell’esplosione presso il traliccio di Segrate, a inseguire, per catalogarle, altre voci. Mentre infatti l’informazione diffusa e ufficiale pareva ancora in attesa di occuparsi seriamente della vicenda, la maggiore attenzione dei vari organi di stampa iniziava a concentrarsi sulle persone dei firmatari del comunicato, lasciando sullo sfondo l’ipotesi omicidiaria alla quale però subito attribuivano un che di paradossale, o di grottesco, di quantomeno esagerato o di infondato o fantastico. Quelle del documento diventavano nei commenti sui giornali “strampalate tesi”, magari mosse da “insani propositi”, qualcuno ironicamente concludeva: «il caso è già chiuso: Feltrinelli è stato ucciso dal Ku Klux Klan»[10].
Giangi, Camilla, Indro e gli altri ragazzi del mucchio.
Presto si passò a scandagliare, anziché i fatti, le biografie dei personaggi coinvolti e, soprattutto, della firmataria più in vista del documento letto dal telegiornale della sera.
Su Feltrinelli, e cioè, comecheffosse, sul morto, già a pochi giorni dal fatto e nel panorama delle ottantadue testate, soltanto Il manifesto, giornale comunista extraparlamentare, e qualche manifesto affisso da Potere Operaio e da anarchici, da un canto sostennero il documento di Cederna e altri, e d’altro canto diedero voce alla tesi che fosse stato assassinato dalla Cia e dal Kyp, il servizio segreto greco. Certo, anche la stampa dell’arco costituzionale si trovò ad esempio a riportare le voci dello scrittore francese Régis Debray, o le testimonianze sulle paure dell’editore, che aveva ripetutamente confidato: «Se troverete un cadavere nudo e sfigurato sotto un ponte, quello sono io», o quanto lo stesso sostituto procuratore della Repubblica, Antonio Bevere, una volta allontanato dalle indagini, il 20 marzo, aveva confermato sui timori della vittima nei confronti della Cia, ma queste illazioni sui patemi “soggettivi” dell’editore venivano trattate come mere note di colore.[11] Presto, le opinioni su di lui si moltiplicavano, ma soprattutto per concentrarsi e magari criticare sul portato, per così dire, politico e umano. A chi gli rimproverasse più o meno apertamente di voler fare la rivoluzione da solo, che invece è mestiere da lasciar fare a chi lo sa fare, facevano eco quelli che lo apostrofarono spicciativamente come rivoluzionario di cartone, o come un povero ricco diviso tra guerriglia e champagne. Rincalzavano quelli che lo dipingevano come un miliardario annoiato che aveva preso tutto per gioco, l’impegno culturale come la lotta politica e, perché no, quella armata. Convergevano quelli che vedevano nel suo esser stato sempre circondato di belle donne e nell’aver inanellato ben quattro matrimoni il tratto dominante della sua biografia. Concludevano, quelli che davano voce alla prima, di queste mogli, scrivendo pezzi sotto il titolo “Aveva bisogno di affetto materno”[12] – così un pezzo firmato da Luca Giurato il 18 marzo – e quelli che benevolmente lo consideravano un caduto sul lavoro per un lavoro che non sapeva fare bene, e quelli infine che invece, partendo dall’assunto che mai Feltrinelli avrebbe tentato di far saltare un traliccio dell’alta tensione perché suo padre era stato presidente della Edison, finivano per coltivare pubblicamente un «dubbio freudiano: e se proprio sul traliccio inteso come simbolo fallico, di dimensione consentita esclusivamente ai grandi capitalisti, si fosse scatenato un riposto complesso di Edipo?».[13]
Camilla Cederna, si deve constatare scorrendo il volume di D’Eramo, già redattrice per L’Europeo e poi inviata per L’Espresso all’epoca dei fatti, aveva per i detrattori la colpa d’aver inspiegabilmente incominciato a interessarsi di terroristi e di tritolo, lei ch’era una redattrice di moda e di costume, che era espressione della parte bene della società, che sapeva come modulare la voce, come comportarsi in ogni occasione, come risultare impeccabile nella coiffure e nella couture. Questo tentativo di sottrarre credito alla giornalista, secondo l’Autrice, trovava un suo riferimento importante in una lettera aperta che Indro Montanelli pubblicò il 21 marzo dalle colonne del Corriere della Sera. «Fino a un paio d’anni or sono», scrive Montanelli «non mi ero accorto che tu avessi competenza di bombe, anzi ero convinto che questi grossolani e rumorosi aggeggi fossero del tutto incompatibili coi tuoi delicati gusti di preziosa merlettaia del costume»; nella lettera, a onore del vero e seppure col suo scrivere caustico, lo stesso Montanelli riconosce alla destinataria il merito di aver tenuta desta l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso Pinelli, altrimenti destinato all’oblio, e sullo stesso caso Valpreda del quale, se non era riuscita ad assicurare la convinzione della sua innocenza per i fatti di Piazza Fontana, era tuttavia riuscita «a toglierci quella della sua colpevolezza. E anche questo è scomodo, ma salutare». La lettera, non senza alcuni passaggi che oggi probabilmente si definirebbero sessisti, chiudeva con il caldo invito a prendersi un po’ di riposo dalle questioni che riguardavano la lotta armata.[14]
Le voci degli organi di informazione, in quei giorni, ricordarlo giova, risentivano comunque anche in larga misura della campagna elettorale in corso, e tutti si era ovviamente attenti a come i fatti e le valutazioni sui fatti di cui si doveva dar conto potessero influire sull’opinione pubblica e orientare l’elettorato. Dopo l’annuncio fatto in televisione, il nome della Cederna rimaneva nell’orecchio del pubblico soprattutto per le querele che le venivano mosse che per la sua presa di posizione sul “caso Feltrinelli”, caso sul quale a una serpeggiante curiosità su chi fosse “l’assassino” si affiancava sempre qualche curiosità sulla personalità della Cederna e, infine una diffusa amara constatazione che il dibattito in vista delle elezioni si stesse consumando sul cadavere dell’editore e non sui problemi reali del Paese. In effetti, si legge in D’Eramo, da un canto era ormai raro il caso di un quotidiano che non si dilungasse sul caso di Segrate, e d’altro canto gli attacchi alla Cederna parevano servire a personificare la tesi dell’assassinio, quasi che sminuendo lei, si depotenziasse per ciò stesso l’ipotesi.
Riferendone, ovviamente, continuo a dire, non posso che ridurre e impoverire l’analisi che Cruciverba politico offriva in maniera minuziosa, analisi fatta, lo ripeto, quasi giorno per giorno e testata per testata.
Il 25 marzo 1972, a pochi giorni dunque dal fatto principale, i quotidiani del mattino e i telegiornali delle 13.30, del pomeriggio e della sera aprivano con la notizia della imputazione con citazione per giudizio direttissimo di Camilla Cederna, e altri con lei, per la diffusione del documento che s’è detto, il quale era considerato portare notizie tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. Il giorno dopo, nelle fonti d’agenzia giornalistiche, questa notizia si incrocia peraltro con l’altra, non meno rilevante e anch’essa fresca di giorni, dell’essere indiziati di reato per la strage di Piazza Fontana Pino Rauti, Franco Freda e Giovanni Ventura.
D’Eramo avvia, sul frangente, alcune riflessioni. A rinvio a giudizio avvenuto, ci si domanda se fosse stato mai possibile che il documento incriminato, il “documento Cederna” potesse essere mai stato fatto passare nella televisione di Stato per una semplice svista. Ipotesi remota. Chi intendeva turbare chi, allora, chi riteneva potersi avvantaggiare, nel panorama che abbiamo per tratti indicato, o almeno aveva tentato in questo modo di non esser preso in contropiede da una interpretazione di un fatto così netta e così grave come l’accusa neanche malcelata di una specie di omicidio di Stato? Certo, passare sotto silenzio quel comunicato, con il rischio di veder spuntare fuori l’ipotesi dell’omicidio a distanza di tempo, avrebbe potuto far tornare alla mente dell’opinione pubblica i primi tentativi di chiudere in fretta il caso Pinelli, ancora recente; meglio quindi, per così dire, se inevitabile, farlo scoppiare subito, quel dubbio, farla scoppiare subito l’ipotesi dell’omicidio, riguardo Feltrinelli, così da poterla far rientrare, se del caso, più agevolmente. In questo, proprio il “documento” offriva in sé «l’occasione per spostare i sospetti dalle cause della morte di Feltrinelli alla scarsa serietà professionale e privata della giornalista, e quindi alla scarsa serietà delle sue deduzioni poliziesche. Certamente la trasmissione televisiva era il mezzo più adatto per attuare un tale proposito, e infatti diede lo spunto a molti giornali per svalutare la Cederna. Se poi ciò non bastava a tacitare i dubbi sulla morte dell'editore, si poteva sempre rinverdire il caso Cederna ricorrendo al reato d'opinione.»[15] A fronte di ciò, simmetricamente, ricorda l’Autrice che sul versante della sinistra estremista ed extraparlamentare, gli sparuti interventi costituivano richiamo rituale al fatto che gli atti di terrore incomprensibili rivolti a caso contro cittadini ignari spingono sempre la popolazione a chiedere protezione, maggiore protezione allo Stato, consentendo così ulteriori giri di vite nel consolidamento del potere, facevano rituale riferimento all’osservazione di Carlo Marx secondo cui ogni tentativo di rivolta fallito rafforza il sistema, tanto che, in quest’ottica, non possano non considerarsi in astratto ipotesi di autoproduzione, per così dire, di tentativi inconcludenti.
Oltre a tanto, per quello che qui maggiormente interessa – non intendendo queste poche, povere e maleinformate righe che scrivo certo proporsi di fare l’analisi di quei fatti, di quelle storie, di quel panorama, di quei movimenti, di quegli anni, bensì semmai, al più, ridestare qualche piccola, minuta curiosità su alcuni meccanismi dell’informazione – c’era ancora da considerare che il comunicato telediffuso era stato emanato dalla casa editrice Feltrinelli: dunque un’azione giudiziaria diretta per i contenuti del comunicato poteva esser letta come se si rivolgesse contro la parte lesa, in certo senso. Più proficuo sarebbe stato impostare l’ipotesi di reato sulla diffusione operata del comunicato attraverso la sua lettura avvenuta durante l’assemblea universitaria sopra ricordata.
I titoli dei giornali dei giorni successivi, quindi, cominciavano a orientarsi già, per lo più verso il processo “ai sostenitori della strage di Stato”, agli imputati del reato d’opinione, fino a virare, successivamente, attraverso vari anche autorevoli interventi, sul tema di quanto fosse condivisa la lettera di Montanelli a Cederna e financo quanto fossero opportuni o meno i toni usati da quell’estensore nei confronti di quella destinataria, che rimaneva pur sempre una signora.
L’impressione di D’Eramo è che il mondo della cultura si tenne generalmente lontano da quel dramma che, comunque lo si intendesse, era occorso al Paese, con le sole buone eccezioni di Umberto Eco e di Alberto Moravia, il quale ultimo tentava di riflettere, dalle colonne de L’Espresso del 26 marzo, sulla situazione politica in cui si inseriva la fine violenta di Feltrinelli. Seguirono allora, pare, e seguono nel libro, righe e righe sulle contrapposizioni “di maniera” degli opposti fronti, discettazioni da giuristi della domenica, un po’ più, un po’ meno, sugli elementi costitutivi del reato contestato a Cederna.
Segue, e salto, ma cito perché parte integrante del tema di quel che scrivo, il rituale appuntamento del funerale della vittima, comecheffosse, celebratosi il 28 marzo e richiamato con rituale compunzione, dovizia descrittiva e suggestiva da tutta l’informazione che dell’occasione, immancabilmente, non mancò di sottolineare l’imponente dispiegamento di forze per garantire la sicurezza e bla, e bla.
Nei giorni successivi si registrava poi l’addensarsi di curiosità, interesse e soprattutto dubbi sulla figura di Camilla Cederna, su di lei e i suoi trascorsi ancora dippiù che sullo stesso Giangiacomo Feltrinelli; iniziava a farsi strada tra le colonne della carta stampata una specie di borsino sull’andamento delle firme raccolte dal “documento”: quante se ne aggiungevano, quanti – e chi, dopo l’autorevole precedente di Eugenio Scalfari, consumatosi nel breve volgere di poche ore, nelle prime ore – la ritiravano o la rinnegassero.
Il 31 marzo riprese la parola anche Montanelli, non per ritrattare la sua condanna verso il comunicato, ma per dichiararsi contro il reato d’opinione: l’opinione e la conseguente sentenza, su quanto dichiarato da una giornalista, i lettori l’avevano già formata ed emessa, e colpiva il professionista, a suo parere, nell’unico capitale di cui questi dispone, il credito, cosa sulla quale «Il magistrato non può farvi né aggiunte né sconti»[16].
Il caso Feltrinelli era dunque diventato il caso Cederna.
Il caso Cederna prende un capitolo a sé in Cruciverba politico, nel quale si debbono registrare ancora una volta tutte le misurate e tattiche posizioni degli organi di informazione, però tarate su di un diverso angolo visuale dal quale il fatto del 14 marzo 1972 appariva oramai definitivamente fuori fuoco. A favore di inquadratura risultavano persino allusioni pesanti sui motivi che spingessero una raffinata signora “sui quaranta portati però come dei trenta”, benché in effetti fossero sessantuno, a farsi inebriare dagli “afrori” degli anarchici.
C’è da annotare tuttavia la risposta che Cederna si risolse a inviare a Montanelli, dal titolo Perché mi occupo di tritolo, dalle colonne de L’Espresso datato 2 aprile, in edicola il 31 marzo. Quell’articolo che, riprodotto integralmente, occupa le pagine da 146 a 151 del libro di cui parlo, sia detto per inciso, io lo darei in lettura a molti, che anche oggi si considerano giornalisti.
Tornando al tema della diversione, quella risposta fu a sua volta accolta dagli addetti ai lavori come un’occasione per una virata ulteriore: c’era adesso agevole modo di far diventare la cosa niente più che «un’allegra polemica tra giornalisti di chiara fama», come sentenziava il Roma del 2 aprile, o concludere che «al pubblico, ovviamente, non interessano affatto questi battibecchi in famiglia», come si esprimeva Luciano Cirri in Buoni & Cattivi. Isolate, restavano poche voci, tra le quali D’Eramo cita quella di Giorgio Bocca, a tentare di ritornare, se non sul fatto di sangue, quantomeno sulle ragioni di merito che avevano spinto i firmatari a stilare il “comunicato”.
E siamo a L’arte di svuotare i problemi, come s’esprime D’Eramo. La stampa governativa in modo particolare ha agio a infierire su di una borghese di successo come Cederna e anzi ne lucra quell’impressione di «attendere a un dovere sgradevole dettato dall’onestà». «L’uovo di Colombo di questa campagna da parte delle forze governative consisté appunto nel captare, per ostacolo su cui misurarsi, un caso così modesto che nessuno gli avrebbe dato troppo peso. E poiché tale caso rispondeva agli umori della gente, i giornalisti che su altri temi (come la scuola, la sanità, le carceri) esercitavano l'autocensura, su questo invece ebbero tutta la libertà possibile. [...] La Cederna seguitava a scrivere e pubblicare articoli in cui argomentava i propri giudizi, ma di questi nessuno parlava.»[17]
Dal canto suo, la brutta fine di Feltrinelli – perché tutto originava da questo fatto, è ormai necessario ricordarlo – diventava un monito: era morto perché s’era ribellato all’ordine costituito, e la sua morte per disgrazia rendeva assurda l’ipotesi dell’assassinio, ipotesi che aveva irretito la “povera” Cederna che s’era fatta affascinare dai comunisti extraparlamentari la cui violenza fascista, a sua volta, dimostrava l’equivalenza degli opposti estremismi. Su questa equivalenza si giocava un’importante partita, portata avanti accostando immancabilmente i nomi di Feltrinelli e di Rauti in ogni telegiornale.
Debbo confessare che arrivato a questo punto della lettura, mi viene naturale chiudere per un momento le pagine per ritornare alla copertina del volume, e poi al frontespizio, per sincerarmi, da un canto, di non esser passato senza accorgermene a scorrere quei vecchi “arcani del potere” descritti da Élemire Zolla[18] – al quale se non erro pure dovetti alludere in qualche occasione da queste stesse pagine – o a qualche altro tra i suoi scritti e, d’altro canto, se comunque le righe che leggo non siano invece fresche, anzi freschissime di stampa, quando si fa più marcato riferimento alla tecnica dell’evocazione costante degli opposti estremismi capace, allora come ora, di favorire il sistema neocapitalistico, neutralizzando, contrapponendole le une alle altre, le forze contrarie ch’è il suo stesso processo di sviluppo a produrre, «affinché, confrontando le cause delle proprie difficoltà, non si sintonizzino nel minacciarne la struttura.»[19] Oggi più sbrigativamente e, va riconosciuto, più agevolmente, quello stesso neocapitalismo produce e offre proprio soprattutto a quelle “forze contrarie”, sempre costituite ancora dalla classe operaia e dall’interclasse popolata da sottoproletari, piccoli commercianti, piccoli impiegati, ecc., all’uopo, obiettivi finti se non falsi, apparentemente libertari, attinenti per lo più forme d’espressione individuale, se non parossismi individualisti, tutti sostanzialmente coerenti, anzi necessari, per il sistema stesso.
Ma non divago. Lo studio di D’Eramo registra a questo punto un ulteriore slittamento di piani: dopo quello che aveva portato dal caso Feltrinelli al caso “documento Cederna”, si andava adesso dal caso “documento” al tema della libertà di stampa e del reato d’opinione, che diventarono un nuovo intrattenimento dopolavoristico per le forze di destra, di sinistra e governative. Queste tutte, secondo quel che leggo, attardandosi ancora sulla divisione apparente di posizioni pseudofasciste o antifasciste, ottenevano il beneficio della “retrodatazione” dei problemi attuali, sostituendo i fondati timori sul futuro con lo spauracchio del ritorno al passato: «Il neocapitalismo infatti non aveva più bisogno, come a suo tempo il capitalismo nel ’22, di suicidarsi politicamente per sopravvivere economicamente. Gli bastava attizzare quelli che sfruttava contro quelli che escludeva e viceversa, porgendo agli effettivi contrasti che c'erano tra i loro interessi economici rinfrescate occasioni di reciproco accanimento.»[20]
In questo panorama che appare ormai sempre più separato dal fatto, il fatto originario s’attestava su una duplice direttrice piuttosto schematica: la tesi dell’assassinio di Feltrinelli poggiava per lo più sui reperti, quella della “disgrazia”, pareva poggiare essenzialmente sulla carenza d’affetto materno. Ma questo dilemma, a sua volta, già diventava una buona occasione per tenere impegnato l’uomo della strada, veniva cioè assorbito in una dialettica interna al sistema, per poi cadere, come registra l’Autrice, nel 96% della stampa quotidiana.
Ma non va neanche dimenticato che si cadeva in periodo elettorale; mancavano ormai poche settimane al voto: la concorrenza partitica in un sistema economico ormai consolidato era sempre più apparente, e dunque il sistema rappresentativo aveva la costante necessità di sottrarre i motivi reali ai possibili contrasti e sostituirli con motivi apparenti. Il caso Feltrinelli, dunque, che era stato così rimaneggiato e sul quale s’era comunque consumata l’impressione che si fosse fatto ogni possibile approfondimento, aveva portato secondo un collaudato schema l’attenzione dell’opinione pubblica fino alla saturazione, fino a un diffuso senso di impotenza.
Il pubblico bambino.
Soccorreva, dunque, a dare nuova linfa alla necessità di argomenti di cui occuparsi e con cui possibilmente distrarsi, il successivo 11 aprile, il processo per direttissima a carico di Cederna e gli altri. Il pubblico ministero Scopelliti, che sosteneva l’accusa, chiese e ottenne che venisse ascoltato il dirigente dell’ufficio politico della questura di Milano, Antonino Allegra.
Questo nome che trovo tra le pagine di Cruciverba, già legato ai fatti relativi al fermo di Pinelli, tornerà utile tenerlo a mente per quel che possibilmente potrò dire appresso. Intanto, parte della stampa apriva con le foto ben in evidenza di Camilla Cederna e Inge Shönthal, terza moglie dell’editore morto, entrambe sorridenti e in atteggiamento, come alcuno sottolineava, di stare amabilmente conversando durante un ricevimento mondano, e di questa immaginetta veniva esaltato il contrasto con la figura, invece rotta dal dolore, della vedova di Oberdan Sallustro, un dirigente della FIAT della filiale di Buenos Aires, in quelle stesse ore assassinato dai suoi rapitori argentini, guerriglieri dell’Esercito rivoluzionario popolare, notizia che a sua volta, mediante un neanche celato parallelo, era occasione per focalizzare l’attenzione sul nascente fenomeno terroristico italiano.
L’Espresso del 23 aprile, sotto il titolo Io, la mitomane. E gli altri invece? pubblicherà l’intera difesa della Cederna, un intervento scritto che l’imputata aveva chiesto di poter leggere in udienza, al quale aveva consegnato le ragioni per le quali si era determinata a firmare quel documento che le era costato il processo, e nel quale ricapitolava circostanziatamente tutti gli elementi, le incongruenze, le circostanze difficilmente spiegabili della morte dell’editore, che l’avevano portata alla convinzione del fatto che si fosse trattato d’assassinio.
Le cronache del processo vogliono che l’autodifesa della Cederna terminasse tra gli applausi degli astanti e con la stretta di mano dello stesso PM Scopelliti, il quale ultimo, neanche questo s’era mancato di sottolineare, aveva già prima accolto in aula l’imputata con un baciamano. Lo stesso pubblico, veniva riportato, aveva invece salutato con alcuni fischi l’ingresso in aula, per la prevista deposizione, del Dottor Allegra.
Tuttavia, quel che più rileva ai fini di quel che qui si dice, anche dai resoconti dell’Autrice su come fosse stata coperta la notizia sull’andamento del processo e sugli stessi contenuti delle difese spiegate dalla imputata Cederna, emerge che molte strade presero i commenti, e pur evitando di considerare quelli che riportassero soltanto “il colore” della situazione e dei protagonisti, anzi della protagonista, D’Eramo rilevava come, oscurata tutta la prima parte della stessa deposizione della Cederna, la stampa desse rilievo soprattutto a quanto l’imputata aveva ricordato «sulle malefatte di qualche magistrato e commissario di polizia» in occasione di recenti, ma precedenti, indagini, e che nonostante ciò proprio ad alcuni di quei funzionari di polizia era stata affidata una indagine rovente come quella sulla morte di Feltrinelli. L’allusione al commissario Calabresi tra gli altri era evidente.[21]
Queste carte sul tavolo, registra l’Autrice, non colpiscono l’attenzione di nessun giornalista dell’area governativa; questi sono interessati a riportare, della stessa deposizione, il tono di voce, il gestire, il linguaggio e lo stile della giornalista imputata: «Ne risultava che le sue prese di posizione estremiste erano soltanto il tocco sopraffino d'una connaturata mondanità [...] Pareva quindi che nascessero da suggestioni estranee al loro vero significato.»[22] Coralmente, il 13 mattina la stampa di centro, centrodestra e destra, e quella di centro sinistra con le sole eccezioni di quella FIAT e ENI, ripeteva di come Cederna avesse inforcato sorridente gli occhiali, di come avesse letto i cinque fogli scritti a casa in precedenza fitti di parole, di come si fosse fermata su una parola che non capiva, e poi della sua noncuranza distaccata, oppure indifferenza, oppure, oppure. E poi note sul suo aspetto attraente, sul suo fascino personale, sulla sua classe, e la naturalezza, e... Le divergenze più nette tra i vari resoconti del processo, annota l’Autrice, furono sull’abbigliamento della Cederna, una eleganza persino un po’ ricercata, per alcuni, e con un maglione da ciclista, invece, secondo altri; tutti concordavano tuttavia su un fondamentale elemento di fatto: Cederna indossava un maglione beige e marròn a collo alto su pantaloni marrone.
Fatta diventare centrale la figura della Cederna, i fatti anche gravi da questa sostenuti – a torto o a ragione che fossero sostenuti, è da dirsi – rimanevano in ombra, o perdevano peso oppure, addirittura, diventavano essi stessi la conferma della libertà d’opinione della quale si godesse nel Paese. Anche i notiziari radiotelevisivi informarono i telespettatori della deposizione della Cederna e il fatto, a quel punto, da problema per il sistema divenne una sua grande celebrazione.
La testa nel pallone.
Durante la sua requisitoria, tenuta il 14 aprile, il pubblico ministero ricordava che gli imputati erano chiamati a rispondere di un reato d’opinione avendo affermato in comunicati ufficiali che nei riguardi di Feltrinelli fosse stato compiuto un delitto di Stato. «Perché a nostro avviso si tratta di notizie tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico? Perché nessuno era, al momento in cui è stato steso il comunicato, e non lo è nemmeno ora, in grado di conoscere la verità sulla fine dell’editore milanese. [...] il reato di notizie tendenziose, in realtà, vuol tutelare il cittadino da emozioni violente ed emotive, e va riferito alla media preparazione culturale, all’uso che avrebbero potuto farne il portinaio, l’autista, il lavoratore e non certo l’intellettuale», sosteneva, grave, Scopelliti[23] e la requisitoria si concludeva con una richiesta di arresto, per Cederna, per cinque giorni, con il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione, sei per altri imputati, e assoluzione per altri ancora. Probabilmente molto influì su questa richiesta il fatto non facilmente eludibile che le indagini sulla morte di Feltrinelli fossero tutte in pieno svolgimento e che non si potesse assolutamente prevedere a quali esiti avrebbero portato sul piano sostanziale dei fatti. Tuttavia, attorno a questa novità processuale, l’Autrice registra un piuttosto diffuso clima di delusione tra i commenti sui giornali, in uno con il fatto che la notizia stessa fosse messa piuttosto ai margini tra le pagine della stampa. In realtà, così condotto dalla strategia dell’accusa, così rileva D’Eramo, il processo stesso aveva spostato il suo oggetto da un giudizio di fatto sulla morte di Feltrinelli a un giudizio politico sull’accaduto.
Ma ben altro processo, e con ben altri rischi per l’accusato si stava celebrando, fatalmente, proprio in quei giorni: Gianni Rivera, calciatore, rischiava la scure della giustizia sportiva e una severa squalifica per aver aspramente contestato l’arbitraggio della partita Cagliari-Milan del 12 marzo, risoltasi in favore dei sardi per via d’un contestato rigore loro concesso dal direttore di gara Michelotti all’ottantaseiesimo.
La mattina del 15, tutti i giornali a titoli cubitali uscivano con la notizia della condanna del capitano del Milan, checché a cinque giorni!, bensì a ben due mesi e mezzo di squalifica, per quello che non era nemmeno un reato politico.
La diversione continua, compaiono vignette satiriche nelle quali ci si aspetta l’uscita di un “documento Cederna” anche sull’affaire Rivera.
La cronaca un po’ da videoteca e un po’ di più d’emeroteca di D’Eramo continua ancora per molte pagine, registrando il trasformarsi del personaggio stesso di Cederna in oggetto di satira, umorismo, in personaggio da barzelletta, in figura buona per un nuovo giro sulle riviste femminili; continua annotando da un canto un ecumenico equilibrio anche giudiziario delle sorti di diverse parti in conflitto politico (il 25 aprile lo stesso Rauti sarebbe stato liberato, per insufficienza di prove), mentre con l’approssimarsi fatidico della data del voto solo poteva iniziare a intuirsi uno scenario tutto ancora da sondare, che avrebbe potuto e forse dovuto riguardare già allora una più precisa identificazione delle diverse matrici politiche dei fenomeni di terrorismo.
E tuttavia, come l’Autrice scrive, almeno per allora, «Mancavano le prove da ogni parte, sulle bombe del ’69, sulla strage di piazza Fontana, sugli incidenti mortali occorsi a numerosi testimoni, sulla morte di Feltrinelli. Ma la democrazia era salva.»[24] Quando arriva la sentenza di assoluzione per Cederna e i firmatari del “documento”, il fenomeno della diversione, oggetto di studio, ora lo possiamo dire, si completa: il caso Cederna si esaurisce nella vicenda Feltrinelli così destinando all’oblio le vicende precedenti pure sollevate dalla giornalista, e il caso Feltrinelli viene assorbito dal caso Cederna, inghiottito dalla questione del reato d’opinione risoltasi con l’assoluzione. Lo stesso Feltrinelli, anche come rivoluzionario, non poteva più nuocere comunque.
I notiziari televisivi, annota l’Autrice, dal giorno della sentenza d’assoluzione passarono ad altro. © (continua)
Rocco Infantino
[1] Luce d’Eramo. Un’opera plurale crocevia dei saperi, a cura di Maria Pia De Paulis, Corinne Lucas Fiorato, Ada Tosatti, Sapienza Università Editrice, p.4. (URL: https://journals.openedition.org/narrativa/471 - ultima consultazione 10 febbraio 2023).
[2] Daniella Ambrosino, Televisione e terrorismo nel romanzo Nucleo Zero di Luce D’Eramo, in Cahier d’études italiennes [Online] 11/2010, UGA Éditions/Université Grenoble Alpes, p.54. (URL: https://journals.openedition.org/cei/103 - ultima consultazione 10 febbraio 2023).
[3] Luce D’Eramo, Cruciverba politico. Come funziona in Italia la strategia della diversione, Guaraldi, p.7-12.
[4] Paolo Spriano, L’informazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia. 5. I documenti, Einaudi, p.1861-1862.
[5] Paolo Spriano, cit., p. 1864-1865.
[6] Carlo Pinzani, L’Italia nel mondo bipolare, in Storia dell’Italia repubblicana. 2. La trasformazione dell’Italia. Sviluppi e squilibri, Einaudi, p. 152.
[7] Sergio Flamigni, Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta P2, Kaos Edizioni, p.94.
[8] Luce D’eramo, Cruciverba politico, cit., p.25.
[9] Ibidem, pp.26-27.
[10] Ibidem, p.47.
[11] Ibidem, p.34-35.
[12] Ibidem, p.43
[13] Ibidem, p.221, anche in nota.
[14] D’eramo, cit., pp.60-62.
[15] D’Eramo, cit., p.84-85.
[16] D’eramo, cit., pp.122, 123.
[17] D’Eramo, cit., pp.169-170.
[18] Elémire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza. Sincretismo e fantasia. Contemplazione ed esotericità, Marsilio, p. 145 e segg.
[19] D’Eramo, cit., p.172.
[20] D’Eramo, cit., p.176.
[21] D’Eramo, cit., p.250.
[22] Ibidem, p.251.
[23] D’Eramo, cit., p.266.
[24] D’Eramo, cit., p. 302.