Mar 29, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Vite da palcoscenico In evidenza

Pubblicato in Editoriale
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Una mia amica conosce un tale che vive in simbiosi con il suo telefono cellulare. Ogni avvenimento della sua giornata, piccolo o grande che sia, importante o meno, viene catturato dalla telecamera del suo smartphone. Fotografie che poi vengono con regolarità e in “tempo reale” pubblicate su tutti i social a cui è iscritto, accompagnate da frasi, a volte scritte di proprio pugno, altre prese in prestito, che ne sottolineano l’umore. Ama raccontare così la propria quotidianità, mi racconta la mia amica, esprimere i propri pensieri, dire la propria sulle questioni che lo appassionano, pubblicizzare, perché no, sé stesso. Pian piano, prosegue, sotto questi “post” cominciano ad apparire i primi segnali di apprezzamento da parte di chi si imbatte in quelle foto e in quei testi, sollevando pollici di approvazione. Più i pollici si sollevano, più l’autostima del tale cresce, più il numero delle persone che prendono a scrivere i propri commenti aumenta, più il senso di compiacenza del tale lievita. È ormai un crescendo di post, di commenti e di soddisfazione. Un tripudio di consensi che nel giro di pochi mesi inonda il tale che ha il petto gonfio di tutta questa stima.

 

Un giorno, mi dice la mia amica, il tale, tronfio del suo ego, la incrocia sulla sua strada. Lei al contrario, ripudia i social e la comunicazione virtuale. E trova sconfortante la spirale nella quale è avviluppato, ormai non può fare a meno di interloquire con il suo popolo di estimatori, al quale indirizzare i propri sfoghi con tanto di foto che ne amplificano il momento. Più si sfoga e più trova consolazione. Più si mostra in situazioni di compatimento, più viene compatito. Più scrive “io”, più rispondono “tu”. Più si auto-osanna, più viene osannato. Fino all’incoronazione finale.

Nonostante questo, mi confessa la mia amica, il tale è sempre scontento. Un generale stato di frustrazione e di straniamento lo perseguita. Nutre rancore, se gli sia capitato di pestare il piede a qualcuno, il tale lo avrebbe accusato di averlo messo sotto il suo.

La mia amica ha provato a fargli notare che nella vita reale le cose vanno un po' diversamente e gli parla della storia di Narciso. «Il bel cacciatore - comincia a raccontare - famoso per la sua bellezza e per la sua vanità, mentre era nel bosco si imbatté in una pozza d’acqua e si accucciò su di essa per bere. Non appena vide la sua immagine riflessa, si innamorò perdutamente del bel ragazzo che stava fissando, senza rendersi conto che fosse lui stesso. Solo dopo un po' si accorse che l'immagine riflessa apparteneva a lui e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire struggendosi inutilmente»[1].

Il tale la guarda perplesso. Aggrotta la fronte e le chiede cosa c’entri Narciso con lui. E la mia amica, imperturbabile, gli risponde: «il tuo smartphone, il tuo popolo virtuale, è il tuo specchio, il riflesso nel quale tutti i giorni ti ammiri per amarti sempre di più e sentirti sempre al centro delle attenzioni di chi ti segue. È come se tu viva su un palcoscenico sempre. Hai bisogno di ricevere applausi per ogni cosa che fai, anche la più banale, anche la più quotidiana delle tue azioni. Finché ci saranno loro, il tuo pubblico, pronto a batterti le mani, tutto filerà liscio. Ma nel momento in cui loro cesseranno di seguirti, di esserci, tu soccomberai.» Quindi la sua ammonizione – perché in fondo gli vuole bene -: «Attento! tu usi il loro amore per amare te stesso, sei diventato la vittima di te stesso!». Il tale non le dà ascolto. La sua arroganza lo allontana dal mondo reale, dalla sua/mia amica e da tutti gli amici veri.

Parola chiave del numero 109 è: consenso.

«Il narcisismo etico è quell’atteggiamento che spinge i migliori a specchiarsi nella propria presunzione, a non accorgersi dell’abilità con cui il male riesce ad egemonizzare la debolezza, che non permette loro di vedere il punto cieco delle loro qualità. La debolezza, infatti, è la condizione comune degli uomini, l’unica base di una possibile fraternità, e non può essere rimossa». Franco Cassano

La storia appena raccontata non è una storia di fantasia, né fa riferimento ad una persona in particolare. È il racconto collettivo di una società (la nostra) infragilita sempre più da processi comunicativi degenerativi, sempre più divorata dalla necessità di rintracciare nel consenso il proprio motivo di vita, scambiando il bene per il male e viceversa. Dalla propaganda finalizzata alla ricerca di affermazione (di cui ci siamo occupati nello scorso numero) alla ricerca del consenso, il passo è breve. E il filo dei nostri ragionamenti continua a confezionare nuovi scorci di riflessione. Su questo tema è utilissima la lettura di un libro che anni fa, il caro amico di cui all’editoriale precedente, mi fece dono graditissimo con tanto di doppia dedica (quella dell’autore e la sua): L’umiltà del male, Laterza editore, del sociologo Franco Cassano, scomparso due anni or sono. L’autore del pensiero meridiano asseriva che il male è in vantaggio sul bene proprio in virtù della fragilità dell’uomo che, se vuole annullarne lo scarto, deve riconoscersi in quella debolezza e andare oltre quell’io limitato e limitante. Lasciarsi andare a quel soffio spirituale che spinge verso la rinascita oltre la prigionia dell’io, significa lasciare la presa contro ogni pretesa di onnipotenza.

Un invito a provare a rinunciare a quell’io, a scendere da quel palcoscenico, a tornare ad essere umani in mezzo agli umani viene suggerito da quella cultura orientale a noi non più così lontana. Eppure, lo sforzo a diventare cercatori di quell’al di là dell’io che consenta all’individuo di cui s’è detto di uscire “dalla sua casa” e di entrare in relazione con gli altri, non è cosa dell’altro mondo. Si tratta semplicemente di prendere atto della realtà, di comprendere che non siamo noi i padroni del mondo e che persino le responsabilità possono essere inutilmente accresciute. Un utile esercizio è quello di lasciare la presa, di mollare questa necessità di dominare il mondo e di concentrarsi sul senso proprio dell’esistenza. Un’esistenza che è dentro l’orizzonte degli altri. Cercare una direzione, chiedersi dove la vita possa condurre. A tal proposito diceva Socrate: «Finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, così: “O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?”». Questa è la nobiltà dell’umano. Sopportare e benedire la vita per quella che è, nella magnificazione dello stare al mondo.

Nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters vi è a questo proposito una bellissima poesia che è un invito a scuotersi e a non guardare la vita che scorre.

«Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio —

è una barca che anela al mare eppure lo teme.»

Alla barca che ignora il richiamo dell’alto mare, all’uomo che rinuncia a sporgersi oltre il proprio io, a coloro che a causa del proprio narcisismo perdono di vista la realtà rinunciando ai rapporti umani veri, a tutti loro diciamo di perdersi “vento nel vento” sapendo che “la stagione nuova dietro il vetro che appannava” rifiorisce sempre (cit. Mogol).

Eva Bonitatibus

 

 

 https://www.ilclubdellibro.it/rubrica-letteraria/652-il-fascino-del-narciso-in-letteratura.html

Eva Bonitatibus

Giornalista pubblicista

I libri sono la mia perdizione. Amo ascoltare le storie e amo scriverle. Ma il mio sguardo curioso si rivolge ovunque, purché attinga bellezza e raffinatezza.

La musica è il mio alveo, l’arte la mia prospettiva, la danza il mio riferimento. Inguaribile sognatrice, penso ancora che arriverà un domani…

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