Apr 27, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023
Rocco Infantino

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

moretti

Mi torna alla mente la storiella di quel tale che diceva: «Bravo chi ha inventato la ruota; ma se non c’erano quelli che inventavano le altre tre, col cavolo che le producevano, le automobili!». Ho letto giorni fa Dario Moretti, Il lavoro editoriale, Laterza, 1999/2005. Sotto le cento pagine, bibliografia compresa che suggerisco di leggere senza soluzione di continuità con il testo, dico subito che non è una lettura impegnativa. Anzi, come si direbbe di certe lager, è di pronta beva (e se non fosse appunto per la nota bibliografica, risulterebbe un po’ corto sul finale). Il volume ha il pregio immediato di indurci una riflessione semplice ma non banale: per molti aspetti il libro è una cosa, un oggetto, un prodotto al pari di altri. Prima d’esser letto, torna o dovrebbe tornare piacevole alla vista, al tatto, all’olfatto persino. Anche l’atto dell’acquisto spesso porta con sé uno specifico rituale – ricordo che io pure consideravo con repulsione l’idea di acquistare libri nei supermercati, sebbene le copie di un medesimo libro siano, in effetti, identiche lì o nella più ricercata libreria. Il libro è dunque una merce, e non cambia questa sua natura il fatto che esso sia veicolo d’idee. Proprio come le altre merci, dunque, e con le dovute eccezioni (ad esempio i prodotti dell’editoria scientifica), esso deve la gran parte della sua fortuna al fatto che esista, per esso, una domanda, dei compratori. In un mondo in cui tutto è consumo, poi, si scopre che il libro non è più neanche il solo veicolo delle idee. Ricorda correttamente Moretti che anche le altre merci, oggi, si fanno considerare o vengono percepite come veicolo di idee: un certo abito, un tipo di automobile, tanto altro. Al pari di altri prodotti, il libro supererà dei test per risultare il più vendibile possibile, al pari di altri prodotti risponderà, in buona misura, a standard verificati per incontrare il maggior favore del pubblico. In ciò, l’autore dell’opera diventa soltanto uno dei vari fattori della produzione della merce libro. Accanto a lui si trovano, spesso con dignità, ambita, reale o percepita, quasi pari, il traduttore, l’agente letterario, l’editor. In casi particolari, quale ad esempio la realizzazione di una enciclopedia, la notevole mole di impegno di organizzazione e di coordinamento delle tante parti dell’opera, rispetto alla quale nel suo complesso, l’apporto delle singole firme sulle singole voci è sicuramente parzialissimo, non del tutto a torto è l’editore medesimo a sentirsi, in certo senso, “autore”. Il produttore, la casa editrice, a sua volta e negli altri casi, è comunque il centro di imputazione di tante professionalità, di tanti mestieri, diversi dei quali oggi per lo più esternalizzati – ma questo, magari, seppure Moretti lo accenni, è un altro discorso ancora; del resto, il suo volume, edito nel 1999 e riedito nel 2005, segna proprio con le date un importante periodo di passaggio tra gli strumenti tradizionali di produzione e stampa in epoca contemporanea e quelle con le quali si fa più ampio ricorso alle nuove tecnologie. Come si fabbrica a tavolino un best seller? Qual è l’incidenza della pubblicità sul successo di un prodotto editoriale? Come si articolano le scelte dell’imprenditore editore? Quale differenza c’è e quali effetti porta anche tra il pubblico, tra il produrre migliaia di titoli, ciascuno di essi capace di una tiratura limitata, o pochissimi titoli invece, stampati in un numero di copie esorbitante? Questa industria è talvolta finanche capace di mutare la prospettiva, se non la natura, dell’autore. Moretti riporta sul punto una illuminante frase che Daniel Pennac, ne La prosivendola, uno dei primi volumi della saga di Benjamin Malausséne - che anch’io ricordo di aver seguito, partendo decenni addietro, attraverso tutti gli appuntamenti, quasi sempre con le lacrime agli occhi per il ridere -, fa dire alla regina Zabo, perfida ma esperta editrice, capo incontrastato delle Edizioni del Taglione, per definire i nuovi scrittori, assetati di fama e di successo: «Non scrivono per scrivere, ma per aver scritto». Perché leggerlo? Il lavoro editoriale è uno spunto per qualche buona domanda e noi, si sa, stiamo sempre lì a rovistare, cercando il senso di qualcosa.

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Cultua Un venerdì nei pressi delle isole Lofoten 1Sul finire della primavera di alcuni anni fa, tra le pagine di Come il jazz può cambiarti la vita di quel raffinato trombettista di Wynton Marsalis, mi fermo a lungo sulla seguente frase: «Il processo dello swing - una coordinazione costante all’interno di una mutazione costante - raffigura la vita moderna in una società libera». Il concetto di coordinazione costante all’interno di una mutazione costante, in me che in quel periodo cercavo soltanto di dare un contesto ai miei maldestri tentativi di fare dello swing con un gruppo di amici, deflagrò come una piccola cosmogonia, principiando da lì e per molto tempo a muovere in me una nuova visione delle relazioni tra le persone, o addirittura tra l’io e il mondo, per buttarla giù così. Anni dopo, ancora del tutto casualmente, mi trovo a leggere un libro di un altro notevole musicista: Francesco D’Errico, Fuor di metafora - Sette osservazioni sull’improvvisazione musicale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015. Francesco D’Errico, pianista, concertista e compositore, conosciutissimo nel panorama musicale, è anche docente di pianoforte jazz e armonia presso il Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, collabora con il conservatorio di Napoli ed è infine, non accessoriamente, filosofo. D’Errico è venuto a Potenza, ospite dell’Associazione culturale Gocce d’Autore, l’11 marzo scorso, a presentare il suo libro, in una serie di iniziative in diversi momenti della giornata. Il libro parla dunque dell’improvvisazione musicale, dipanandosi lungo sette capitoli contenenti altrettante osservazioni sul tema. Tra le tre accezioni canoniche del fenomeno medesimo e del termine che lo esprime, nell’uso comune e non soltanto nell’ambito musicale, identificate nella meraviglia, nell’attività frettolosa e poco affidabile posta in essere quando si manchi di un che di esperienza o di conoscenza, e nella capacità di risolvere problemi attraverso soluzioni non codificate, la prima osservazione, negletto il secondo, si incentra sul primo e sul terzo connotato del fenomeno. Proprio il problem solving, trattando d’improvvisazione come di un archetipo del processo creativo, mutuabile ed esportabile in ambiti diversi dell’agire umano, è stato il tema del primo appuntamento della giornata, rivolto in modo particolare agli studenti dell’IPSEOA, tenutosi presso il Museo Archeologico Provinciale “Lacava” di Potenza. La seconda osservazione affronta le esperienze sensoriali del corpo come deposito e come soggetto, del movimento divenuto sperimentazione consolidata, esercizio, e la modalità con la quale s’affronta la paura, che sia timore rivolto verso un pericolo concreto ed attuale che attinga magari anche la propria incolumità o anche soltanto verso una propria esibizione artistica: immobilismo? fuga? I concetti di tradizione orale e di tradizione scritta, specificamente riferiti alla letteratura musicale ed alla teorica contrapposizione delle due fonti, nonché il catalogo dei materiali delle pratiche musicali, quali le altezze, i timbri, le attese, le durate, le dinamiche, le fraseologie tipiche e ricorrenti di determinate correnti e quanto ancora, su differenti piani, si ponga come strumento per la fabbricazione musicale del momento dell’improvvisazione, sono oggetto della terza e della quinta osservazione. La sesta osservazione muove tre passi nel mondo dell’economia e del management, in quello del teatro e specificamente della commedia dell’arte, in quello della pittura e tanto pratica, sull’abbrivio, per chiarire intanto quanto possa essere limitante considerare l’improvvisazione quale processo che segua un semplice sviluppo lineare, anziché contare su plurimi apporti di contesto. Nel secondo appuntamento nella intensa giornata dedicata, questa volta in un pubblico incontro mirato proprio alla discussione sui contenuti del libro, D’Errico finisce per confessare come l’osservazione a lui più cara sia l’ultima, la settima, che ha come oggetto le visioni del mondo. Attrezzi, corredo e bagaglio diventano allora gli elementi offerti si dalle neuroscienze, ma soprattutto la filosofia pura, con gli sperimentati canoni della dialettica hegeliana da un canto, e dell’esperienza della, o, meglio, delle molteplicità dalle qualità rizomatiche proprie del pensiero di Gilles Deleuze, il cui sfociare in una apparente non-relazione del pensiero aperto può ancora offrirsi come paradigma ideale al fenomeno dell’improvvisazione. L’approdo diventa, in questo caso, sia il bisogno d’integrazione, sia anche l’accoglienza del paradosso. E’ ancora nel luogo protetto della mia lettura privata che invece io incontro le pagine che fatalmente finiscono per attrarmi più delle altre, quelle cui è rivolta la quarta osservazione, dedicata, nei dichiarati intenti, alle relazioni tra improvvisazione su struttura e improvvisazione libera. D’Errico ricorda che in un oggetto sonoro la struttura si declina in circolarità, flusso temporale misurato e norme condivise. L’esperienza dell’improvvisazione viene proposta come una volta a volta diversa visione delle cose, sia metodologica che emotiva, attraverso uno sviluppo temporale circolare, anzi ad anello. Così lo sguardo del corridore su pista, rivolto sempre a nuovi elementi del paesaggio circostante, nell’esempio che l’autore propone, parallelo del giro armonico presidiato da un flusso regolare di tempo nella musica praticata. Qui mi fermo ancora un momento, nel leggere, perché avverto interiormente come questa visione richiami l’idea della coordinazione costante incontrata anni prima e di cui ho riferito, ma ancora mi sfugge l’elemento che denunci o liberi la costante mutazione. L’osservazione di D’Errico tuttavia incalza, ricordando come l’insieme ordinato delle norme abbia come punto di origine, anzi come generatore costante oltre che necessario proprio il caos. Mi viene allora alla mente come Ilya Prigogine, ne Le leggi del caos, con una frase che è quasi poesia diceva: «l’universo è meno simmetrico di quanto le equazioni di base lascerebbero prevedere». La mia piccola cosmologia interiore viene quindi già attinta dalle leggi del caos. Debbo andare oltre. In questa densa quarta osservazione l’Autore cita anche il musicologo Stefano Zenni, riportando un passo di quel I segreti del jazz – Una guida all’ascolto, libro magico per gli appassionati, che era stato oggetto di una mia precedente altrettanto vorace, sebbene incompetente lettura.

Cultua Un venerdì nei pressi delle isole Lofoten 2Zenni, ora lo ricordo, dedicava a propria volta un intero capitolo in quel libro all’improvvisazione. Il titolo del capitolo era Descent into the Maelstrom: viaggio nell’improvvisazione. Perché quel titolo? Bello ma strano, me lo domando soltanto adesso, ora che mi pare di avvicinarmi al punto. Che sia un riferimento a un racconto di E. A. Poe, o anche soltanto al fenomeno causato dalla marea lungo la costa atlantica della Norvegia, che l’ha ispirato, il punto è che si tratta di un gorgo. Di una spirale. E in effetti il moto circolare del tempo, nelle battute di un brano proprio come nelle ore di una giornata, come nel mio stesso intemperante terzinare di allora quale assai improbabile batterista, segue si un ciclo, ma lungo una traiettoria si immagina costante e s’immagina tesa tra il passato e il futuro, tra un prima e un dopo, tra la prima e l’ultima nota suonata di un brano, almeno nell’esperienza comune. Così tutto improvvisamente mi pare guadagnare maggiore senso, la musica stessa mi appare più compostamente comporsi con l’esistere, o quest’ultimo con essa, non so dire, ora che credo di aver chiara la mia personale, forse fallace, idea di coordinazione costante all’interno di una mutazione costante. Del libro, un testo ricco viepiù se lo si prende a propria volta come l’esposizione del tema dal quale partire per proprie personali improvvisazioni speculative interiori - ma non si sa quanto ricorsive in quanti altri sé -, è corredo tra l’altro un’altrettanto affascinante postfazione di Mauro Maldonato, psichiatra e professore di Psicopatologia generale presso l’Università della Basilicata, dove leggo finalmente che improvvisare è un atto di profonda interiorità. Maldonato, partendo dall’assunto che «il pensiero cronologico è ordinato nel tempo, mentre il pensiero corporeo è simultaneo», mostra come «l’urgenza performativa di gesti, voci e suoni, sebbene declinata in un medesimo orizzonte, rende irriducibile la differenza del tempo individuale. Del resto,» continua e conclude sul punto «se i tempi individuali coincidessero, i musicisti condividerebbero la stessa vita».

Cultua Un venerdì nei pressi delle isole Lofoten 3Per rimanere nella cifra cosmologica, niente ci garantisce, se non l’universo stesso per come lo conosciamo nella nostra limitata quantità di tempo, e cioè niente ancora una volta, che le spirali sulle quali s’avvitano le orbite dei corpi celesti, conservino le medesime relazioni conosciute tra loro. Ciò non ci sgomenta, se consideriamo per un momento che, tolto il tempo, tutto quello che è è soltanto un momento, un improvviso, istantaneo e inaspettato, appunto. E come tale, non può risultare incoerente. Tanto mi dico, per chiudere i miei conti privati con Marsalis. Della giornata intera, generosamente dedicata dal filosofo e dal didatta alla declinazione plurale del tema dell’improvvisazione, è stata naturale conclusione un concerto del pianista Francesco D’Errico, accompagnato da Marco De Tilla al contrabbasso, Olindo Linguerri alla batteria e Alberto De Michele alla chitarra, nei locali del Circolo Gocce d’Autore a Potenza.

Rocco Infantino 

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Le età di Pericle

pericle 1Mi metto nei panni di un povero diavolo, con la radio accesa mentre tiene l’orecchio al primo gloglottio della mòca, o con la tv dai lampi esaltati nella cucina appena appena abitabile. Mi metto nei suoi panni mentre dà le spalle al bancone affollato del bar e sfoglia uno di quei sette o otto giornali di quei due o tre editori padroni, quei fogli già spannocchiati da tanti, che sembrano dirti “solo adesso lo sai?” anziché darti notizie. Sono ancora nei suoi panni al momento in cui dal finestrino rigato di pioggia dell’utilitaria immobile nella coda, con la mente ai fatti propri, guardi montare lungo i marciapiedi, dove ci sono, i pannelli per la pubblicità elettorale. Si vota? Possibile? E per cosa? Mio cognato / cugino / il mio vicino / la maestra di mio figlio non mi ha ancora avvicinato, fatto una telefonata, la solita. Si, fra un mese si vota. Non ne fanno parola radio, giornali e tv, ma si vota. Può darsi che vada come le altre volte, quando hanno dovuto eliminare il ministero dell’agricoltura e ci hanno messo quello delle politiche agricole, o togliere il finanziamento pubblico ai partiti e si sono inventati il rimborso elettorale. Ma si vota. Il referendum c’è, magari pure promosso controvoglia e a cose fatte anche da alcuni che al ricorso intensivo e sostanzialmente senza regole praticate, alle risorse fossili hanno finora dato una mano. Il 17 aprile si vota e il dibattito pubblico sui mezzi di informazione di massa che non siano nicchie nella rete sta, come al solito, su altro. Su altro. Che cos’è diventata, sotto i nostri occhi, questa democrazia italiana, dove l’aggettivo si mangia il sostantivo, ce lo dice pure, secondo l’esperienza comune, questa residente voglia di non pensare, questo domandare persino alla musica, al cinema, alla letteratura, alla comicità, di intrattenerci e basta. E certo loro generoso rispondere. Distrarci. Le schiere di intellettuali che pareva dovessero, loro almeno, tenere il punto, sono evidentemente altrove, l’abbiamo detto altre volte. Chi lo fa il punto sulla realtà? Chi ne parla, si badi, pur senza visioni o conclusioni preconcette? Nel sonno colpevole dei grandi maître à penser la cui celebrata stoffa mostra oggi la grana grossa dell’appartenenza agli apparati, sono proprio quelle che si definivano le persone comuni, talvolta, non infrequentemente e speriamo sempre più spesso, ad impegnarsi. Qualche settimana fa, vado alla presentazione di un libro proprio nel circolo di Gocce d’Autore, con il segreto timore che nutro da una vita di cadere ostaggio del trasognato prosatore di turno e del suo mondo lirico, della sua propria Arcadia, della sua fantasia, insomma, e della sua fuga dalla realtà, cosa che talvolta mi esalta, talaltra mi prostra. Mi trovo davanti un trentaquattrenne concreto, che parla un italiano solido e che ha scritto, si, un romanzo.

pericle 2Ma il romanzo, vivaddio, non è popolato di unicorni. Anzi, racconta di una democrazia senza partiti e senza mezzi d’informazione, di un piccolo Paese ovviamente inventato e presenta in esergo, tanto per esser chiari, un frammento del Discorso di Pericle agli Ateniesi. Vito Daniele Cuccaro, Filodèmia, Eretica Edizioni. Quando nel dialogo con l’autore che segue la presentazione io gli domando quale sia, se ce n’è, il valore politico dell’affrontare certi temi in una forma romanzo, lui lucidamente mi risponde che con un romanzo si raggiunge molta più gente di quella solitamente disposta a occuparsi di politica. Chapeau. Tanto per esser concreti, una buona sintesi del cosa tecnicamente si va a votare il 17 aprile e delle ragionevoli ragioni per cui votare e votare SI, io l’ho trovata nel blog della Società Chimica Italiana, in un intervento a titolo personale dell’autore, che si trova a questi due link, che per impegno civico più che per estro artistico vi riporto qui https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/03/09/referendum-17-aprile-2-parte-cosa-si-decide/ e qui https://ilblogdellasci.wordpress.com/2016/03/07/referendum-17-aprile-1-parte-perche-dobbiamo-dire-no-alle-trivelle/ . Ci piace la rete? Usiamola. E la testa? E quale parola preferiamo tra: cittadini, consumatori e sudditi?  

Rocco Infantino

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Portare il segno

scrivere 1Lo stai facendo adesso. Leggere è una di quelle cose della vita che quando le si fanno le si danno per scontate. Come andare in bicicletta: quando sei sul sellino ti fai prendere dal paesaggio, o ti concentri sulla salita; non pensi certo a quel bilanciamento rigorosamente dinamico, a quella stabilità custodita proprio dal moto, che ne sono l’essenza. Non sai, o non sai più dire quanto estraneo e insolito doveva sembrarti, fino a un attimo prima, pensarti sostenuto da due ruote in movimento su un battistrada dallo spessore pressoché inesistente. E leggere, prima di saper leggere, non appariva forse altrettanto improbabile, innaturale? E anche agli inizi, poi, il momento fatidico in cui togli le rotelle alla bici o smetti di portare il segno seguendo il rigo col malcerto incedere dell’indice sulla pagina del libro, quali orizzonti disvelava? I segni diventavano suoni, i suoni articolazioni, parole, le parole significato. Pezzetti piccoli di significato si componevano pian piano in periodi, in lunghi costrutti, sempre più ampi, e complessi, e articolati, magari profondi, magari astratti. Oggi sappiamo che anche tra leggere e comprendere c’è differenza, che perfino rispetto al singolo vocabolo che s’incontri corre molto anche tra il conoscere il senso generale del termine e il saperne padroneggiare, ad esempio, l’utilizzo metaforico. Oggi sperimentiamo che il discrimine non è più semplicemente tra il sapere e il non saper leggere, bensì magari tra saper leggere e saper gestire, argomentando, i contenuti di quel che si legge.  E le differenze che ci sono, se ci sono, tra la lettura e la cosiddetta lettura profonda? Continuo nell’azzardare un’analogia che non so se sia già stata provata da altri: andare su strada o tentare di farsi esperti di un terreno impervio, assai vario, farne conoscenza, fronteggiarlo, sentirlo nelle gambe, prevederlo, come andando su una bici da cross? E leggere libri di carta, aiutandosi così nella riflessione e nell’approfondimento, anche di se stessi, o leggere nel mondo dei media, dove le informazioni e gli stessi spunti per l’apprendimento si dipanano in infiniti percorsi, ma sempre primariamente in superficie? E riflettere sul fatto che piantati così come siamo su due piedi, non eravamo certo progettati per spostarci su ruote, così come il nostro cervello era stato pensato (lo so, mi piace il gioco) per governare attività come guardare o annusare, per parlare, al limite, e ascoltare, ma certo non per leggere, men che meno per scrivere? Cosa avrà comportato questa nuova attività, cosa comporta ogni volta il leggere, finanche a livello neuronale? E astraendosi dalla condizione personale, dalla esperienza del singolo individuo, sollevando il punto d’osservazione allargando l’orizzonte osservato sino a comprendere una visuale sociale, in che cambia questa pluralità di bipedi, se diventa una collettività di cicloamatori, innervata addirittura da tanti ciclisti? E una moltitudine di persone che leggono, tra le quali magari tante in grado di utilizzare appieno i nuovi mezzi e/o di non perdere la capacità di comprensione profonda? Belle domande, no? scrivere 2Soccorre, alla bisogna, Biblioteche oggi, una rivista di studi e ricerche, specializzata insomma, se ciò non scoraggia, che nel numero di dicembre 2015 affronta monograficamente proprio il tema delle forme della lettura. La rivista è di facile reperimento, in ogni caso è dotazione di qualunque biblioteca pubblica (si legge il messaggio?). Sfogliandola, dopo non aver mancato di leggere l’editoriale e per non farmi dire che esagero, consiglierei di leggere almeno tre interventi: Dalla lettura alla literacy. Come si diventa lettori nel nostro tempo, di Tiziana Mascia; L’importanza della lettura profonda. Che cosa servirà alla prossima generazione per leggere in modo riflessivo, sia su carta che on line?, di Maryanne Wolf e Mirit Barzillai; Leggere i passaggi: appunti per una teoria della lettura, di Elena Ranfa. Di Wolf, per mio piacere personale, ovvio, e però anche per continuare la passeggiata lungo uno dei tanti rami del lago di Como che è questo dialogare con l’ipotetico lettore, mi riprometto di leggere, a stretto giro, quel Proust e il calamaro citato anche dal Direttore responsabile  Giovanni Solimine in apertura e che promette sapide soddisfazioni per chi fosse incuriosito – io lo sono – al tema della relazione tra il leggere e il cervello stante che, pare, come dicevamo, il cervello umano non fosse naturalmente programmato per leggere. Pure su questo, qualche mio vecchio compagno delle elementari, se non io stesso in certe mattinate ferrigne e storte, avrebbe aprioristicamente dato ragione all’autrice, nell’ora deputata, squadernato sbuffando il libro illustrato sul banco, assumendo con nobile sdegno i rimbrotti della maestra, e tuttavia parando riottosa l’estrema falange del dito già sul titolo della lettura quotidiana.

Rocco Infantino

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L’amore comunque.

amore1Qualche giorno fa, nella mia città è venuta a mancare una signora. Non giovane né tanto anziana, l’informazione locale probabilmente non se ne sarebbe interessata se non fosse che, per le solite vie della banalità del male, la donna era stata travolta da un’automobile su un marciapiede. Poche righe in cronaca e una foto della vittima. Quel volto non mi era nuovo. Debbo tornare indietro di trent’anni. Quasi ragazzi, alcuni amici ed io una volta organizzammo in città una improbabile mostra di opere d’arte varia realizzate dagli studenti rigorosamente durante l’orario di lezione: opere figlie della noia, della distrazione, della fantasia o della protesta, della vacuità, del genio, vandalismo, fate voi. Goliardata. L’esposizione durò per diversi giorni e già dal primo, tra i molti, lei. La signora tornò anche il giorno seguente, quasi verso l’orario di chiusura. Riprese ad osservare qualcuno degli oggetti esposti, poi stette in un canto qualche minuto, finché, fattomi più vicino a lei, potè dirmi: “Posso venire anche domani?” C’è un articolo del The Guardian del 6 febbraio scorso, ripreso da un amico sulla propria bacheca Facebook, inserito, mi pare, in un reportage con il quale quel giornale racconta, attraverso le voci del personale addetto, dei tagli a certi servizi pubblici e del contemporaneo aumento di certa domanda, che parla di quello che sono diventate, o stanno diventando, ad altre latitudini, le biblioteche pubbliche. Ci sono disoccupati di mezza età che ci vanno per farsi aiutare a compilare domande di lavoro on-line, o digitalizzare dei documenti; ci sono genitori che portano bimbi anche molto piccoli e che hanno bisogno non soltanto di attività di prima alfabetizzazione o per lo sviluppo del linguaggio, ma magari domandano di iniziative semplicemente socializzanti e magari gratuite. Così, continua l’articolo, quelle strutture finiscono per ospitare corsi d'arte, tè danzanti, servizi complementari di supporto agli anziani. Diventano insomma luoghi di incontro e contribuiscono così a fronteggiare il crescente rischio di isolamento sociale cui, specie in questi periodi di crisi indotta, sempre più persone sono esposte. Qualcuno arriva a riferire al bibliotecario: “Tu sei l’unica persona con la quale ho parlato per tutto il giorno”. Dove va il nostro mondo? Vuoi un libro? C’è Amazon. Cultura? Socializzazione? Pizza, palestra, salsa, merengue. Sei ricco? Ok. Povero? Caritas. Socializzare non è soltanto convergere in un punto, io credo. Così fosse, basterebbe organizzare più spesso incendi nei grandi hotel. E partecipare alla vita e alla vita culturale di una comunità, dove comunità c’è, non è comprare un prodotto, libro, film, concerto, una o venti volte al mese. Credo sia poter prestare orecchio, e talvolta provare anche la propria piccola voce, in un dialogo continuo. Avere modo, avere luogo. In qualunque condizione sociale o personale si versi. Sempre, comunque. Non mi trovo mai a mio agio a spendere parole importanti, ma se dovessi parlar d’amore in fatto di  cultura, magari direi questo. L’amore non è necessariamente continuità, si danno gesti d’amore tanto assoluti quanto immediati, fulminei ed anzi irripetibili. Proprio così ogni singola opera dell’arte, magari.  Ma in questi fatti, la continuità è una forma di amore.

Rocco Infantino

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