Apr 27, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023
Pubblicato in Racconti Inediti
Letto 479 volte

racconto inedito 3Mi chiamo Marco e ho venticinque anni.

Una volta avevo un fratello.

Per un certo periodo è stato come se non l’avessi più.

Un giorno qualcuno me l’ha restituito.

Questo qualcuno si chiama Alina.

Alina è una dolce ragazza che viene dalla Romania.

Ha un viso delicato, capelli corvini e due occhi neri come la pece, ma di quel nero che non ha nulla di cattivo in sé, anzi ti culla e ti fa sentire protetto.

Mio fratello Sergio, di un anno più piccolo di me, ha trascorso la sua adolescenza tra campi di calcio, discoteche, ragazze e viaggi.

Sergio un tempo non stava mai fermo, era sempre impegnato in qualcosa e non lo vedevi mai annoiato. Oggi, Sergio non può più muoversi con la stessa facilità di una volta.

Sono ormai tre anni che, a causa di una rara malattia genetica, ha perso la vista.

Insieme alla vista, però, mio fratello ha perso qualcosa di più importante: la voglia di vivere; dal momento in cui ha preso coscienza del suo nuovo stato, ha preferito non accettarlo.

Punto.

La sua risposta a questa brutta novità è stata quella di mettersi seduto – o sdraiato, se era il caso – senza pensare più a niente.

Almeno in apparenza.

Sono convinto tuttora che anche in quei momenti d’immobilità il suo cervello fosse attivissimo nell’elaborare una spirale di pensieri negativi.

La sua unica preoccupazione, in quel periodo, fu quella di lasciar sedimentare la propria vita in una stanza, restando il più possibile solo con se stesso e ricorrendo alla gente che gli è vicina solo per le proprie esigenze materiali.

Così, pian piano, Sergio ha finito per allontanarsi da tutti e da tutto, diventando scontroso e irascibile, apatico e meno vivo dei mobili che occupano la sua stanza.

Ho provato a stargli vicino – certo! Non avreste fatto così anche voi? – ho tentato di farmi ascoltare, di dialogare. Credete sia servito a qualcosa? Niente, tutto inutile.

Un giorno in cui lo pungolai più del solito, Sergio si arrabbiò davvero e mi rispose: «Che ne sai tu? Me lo dici una buona volta? Che cosa puoi saperne tu di svegliarti la mattina, aprire gli occhi e vedere tutto buio intorno a te, come se fosse ancora notte e stessi ancora dormendo, con uno straccio nero a coprirti la vista tutte le sante ore del giorno?».

Rimasi di sasso, sorpreso da quell’aggressione ma non più di tanto, perché in fondo me l’aspettavo. La vera batosta arrivò subito dopo. Quello che non mi aspettavo, infatti, fu l’epilogo dello sfogo.

Prima ancora che potessi formulare una risposta che avesse un senso, Sergio rincarò la dose: «Sai cosa mi ha detto qualche giorno fa un bastardo che non mi rivolgeva più la parola da anni? Mi ha telefonato apposta per dirmi che ora posso sbraitare quanto voglio, tanto sono e resterò per sempre un cieco di merda… E che lui la mattina quando si sveglia il sole può vederlo… Io invece me lo posso solo sognare! Hai capito? No, non credo… Che ne potete sapere tu e gli altri? Perciò vai via e lasciami stare, che non potrai mai capire…».

Ammutolito, lasciai Sergio da solo con le sue lacrime di rabbia.

Non potei consolarlo perché in quel momento ero impegnato a piangere le mie lacrime, causate dalla rabbia nel vedere quanto quella maledetta malattia avesse trasformato mio fratello, e non solo dal punto di vista fisico.

E dal quel giorno io e lui non ci siamo più rivolti la parola.

Parlavo solo con i miei genitori e, anche quando ero costretto ad aiutarlo, per esempio ad andare in bagno, lo facevo senza spiccicare parola. Come un servo muto.

E altrettanto faceva lui. Ma con sdegno, come se il guaio capitatogli fosse colpa mia, in realtà.

Le cose hanno avuto quest’andazzo per mesi fino a quando, esasperati, i miei genitori non provarono ad associargli una persona estranea, qualcuno che fosse in grado di aiutarlo a superare quello stato d’animo e recuperare un minimo di voglia di vivere.

Agli occhi dei miei, il peggio era questo suo lasciarsi andare, questo morire lento e ingiustificato che li feriva ancor di più dell’handicap.

Ci affidammo a un centro di assistenza per non vedenti, dal quale ci assicurarono la disponibilità di personale adatto al nostro caso.

La scelta sarebbe dovuta cadere su una persona seria, affidabile e soprattutto dotata di grande pazienza. Mi aspettavo, da un momento all’altro, di vedermi per casa una donna cinquantenne, tanto abbottonata sulle proprie cose private quanto impicciona per quanto riguardava i fatti degli altri. Non so perché avessi in mente un tipo del genere; ebbi la prova di quanto mi sbagliavo quando ho conosciuto le persone che ci inviarono dal centro: ognuna di esse si scostava di molto da quella raffigurazione. In positivo o in negativo.

Dopo poco tempo ci rendemmo conto che i tentativi andavano tutti a vuoto. A causa del comportamento scontroso e a tratti insopportabile di Sergio, dopo uno al massimo due giorni, tutti i candidati rinunciavano.

 

racconto inedito 2I miei genitori stavano per gettare la spugna, quando saltò fuori l’ultima possibilità.

Si trattava di una ragazza poco più che ventenne. Non era italiana e, nonostante la giovane età, quelli del centro ci assicurarono che aveva già una lunga esperienza nell’assistere i non vedenti. Ci dissero anche che aveva capacità particolari; non riuscivo a immaginare quali fossero né quelli del centro scesero troppo nei dettagli. Me ne resi conto solo in seguito di quali fossero queste capacità, e senza comprenderle a fondo.

Ai miei genitori importava solo il bene di Sergio, per cui accettarono di buon grado. Io accolsi con scetticismo quell’ultimo tentativo, convinto che sarebbe fallito miseramente come gli altri.

Un freddo mattino di gennaio però, quando Alina varcò per la prima volta la soglia della nostra casa situata a pochi chilometri dalla città, una strana sensazione s’impossessò di me. Fu una cosa passeggera, senza alcuna spiegazione plausibile; appena la vidi, quella ragazza m’ispirò fiducia. E Amen.

Alina viveva in Italia da quasi un anno; per raggiungere la propria famiglia, che già vi abitava, aveva sostenuto un lungo viaggio da sola.

La madre fu la prima a lasciare il suo Paese e lavorava da anni in casa di una coppia di signori di mezz’età; il marito e il figlio maggiore (padre e fratello di Alina, rispettivamente) si trasferirono dopo di lei e all’epoca erano operai in una fabbrica in cui si lavorava il legname.

Oggi, sinceramente, non so proprio che fine abbiano fatto.

Dopo la partenza dei familiari, Alina è rimasta in Romania vivendo insieme alla nonna; lì ha studiato e ha svolto un’intensa attività di volontariato.

Quel giorno di gennaio, Alina entrò in casa mia con molta discrezione. Attribuii quell’atteggiamento a un’eccessiva timidezza. Sembrava aver paura di far rumore, anche solo col proprio respiro. Era minuta e graziosa. Oltre al suo aspetto esteriore, quando la vidi mi colpì la sua pacatezza, così insolita a quell’età in cui molti sono esuberanti e avventati – me compreso.

Alina aveva inoltre un modo tutto particolare di muoversi, di guardarti mentre ti ascoltava e, quando parlava, emetteva un suono che pareva legato non solo alle vibrazioni della voce; ogni volta che apriva bocca era come se le particelle dell’aria circostante si mettessero a vibrare all’unisono col suo timbro vocale.

Quella ragazza portava con sé la millenaria saggezza della sua gente.

Alina cominciò a frequentare la nostra casa e il suo compito, fin da subito, mi parve proibitivo. Sergio la trattava male, spesso senza nemmeno aprir bocca. Erano, infatti, numerose le occasioni in cui, anziché parlare, si ostinava nel suo mutismo e reagiva buttando giù roba dalle mensole e dai tavoli, o scalciando sedie e poltrone.

Eppure, nonostante mio fratello le riservasse tale atteggiamento, lei non fece mai una piega. Ed io mi chiedevo, in continuazione: «Ma come fa a sopportarlo?».

Alina continuava a frequentare casa nostra, portando sempre con sé una grande serenità interiore, come se niente e nessuno al mondo potesse scalfirla.

L’unica cosa che cambiava, giorno dopo giorno, fu la sua determinazione. I suoi occhi neri e profondi lanciavano barlumi, luccichii improvvisi, come se fossero lampi, impulsi di una volontà incrollabile, quasi disumana.

E quante volte mi sono ritrovato a pensare: «Ma perché una ragazza così giovane e carina perde il suo tempo appresso a queste cose, e non manda al diavolo tutto? Perché non se ne va via, magari sbattendo la porta, che ne avrebbe in fondo anche la ragione, visto il modo in cui la tratta mio fratello?».

Ma lei niente, imperterrita continuava con pazienza ad accudire Sergio.

Un giorno qualcosa cambiò. Mi accorsi che le crisi di Sergio diminuivano e la barricata che ergeva tra sé e gli altri, e ancor di più tra sé e Alina, stava cedendo.

La dura scorza che ricopriva il suo cuore iniziò a sgretolarsi. Non che fosse chissà che cosa, ma la sensazione che provai fu la certezza di un cambiamento. In meglio.

Sergio trascorreva alcune ore chiuso nella sua stanza in compagnia di Alina, senza che nessuno li disturbasse.

A un certo punto qualche malizioso pensiero avrà sfiorato la mente dei miei genitori. Su questo non posso scommetterci, in tutta sincerità.

Per quanto riguarda me, posso giurare che un fugace pensiero malizioso ci fu. Tanto che, un pomeriggio, mi arrischiai a spiarli.

Non che mi aspettassi chissà cosa, ma la curiosità era davvero forte.

Aprii con estrema cautela la porta della camera di Sergio, uno spiraglio di luce sufficiente a farci passare a malapena una piccola mazzetta di banconote.

Compiendo sforzi enormi come quando da piccolo spiavo dai buchi delle serrature, sono riuscito a sbirciare nella stanza. Dal mio punto di vista si vedevano chiaramente il letto e due sedie accostate a esso.

Sergio e Alina stavano seduti su quelle sedie, l’uno di fronte all’altra, con gli occhi chiusi.

O meglio, Alina li teneva chiusi, mentre per Sergio doveva essere solo un vecchio riflesso incondizionato. Per lui tenere le palpebre alzate o abbassate non cambiava nulla.

I due non parlavano. Sembravano non essersi nemmeno accorti del mio occhio indiscreto.

Chiusi la porta e mi allontanai per paura che, nonostante cercassi di essere prudente, si rendessero conto della mia presenza.

Il giorno dopo, però, ripetei l’azzardo.

Aprii uno spiraglio nella porta e sbirciai all’interno.

I due erano nella stessa posa che avevano il giorno prima; a differenza dell’altra occasione però, questa volta Alina toccava il volto di Sergio, con delicatezza. Le sue dita scivolavano leggerissime sulle palpebre, sfiorando poi la linea del naso, fino a giungere sulle labbra. Qui sostavano racconto inedito 1per una frazione di secondo lungo la linea della bocca, per poi ridiscendere verso il mento e infine sul collo.

Terminato il percorso, le dita risalivano e ripetevano lo stesso tragitto di prima.

A un certo punto Alina disse, nel suo italiano ancora incerto: «Ora tu prova… di fare come me» e, vincendo con delicatezza la ritrosia e l’imbarazzo di Sergio, gli prese la mano e se la portò al viso.

Alina collocò la mano di Sergio sulla propria fronte, guidando le dita di mio fratello in un movimento tale da esplorarle tutto il tratto che andava dall’attaccatura dei neri capelli fluenti fino alle delicate sopracciglia.

«No è dificcile…», commentò Alina. Sorrisi nell’udire quella sgangherata pronuncia.

Sergio muoveva incerto le dita, restando in silenzio. Dal suo atteggiamento traspariva un certo imbarazzo.

La sua mano seguiva le curve del volto, sollevando e posando più volte la punta delle timide dita sulla pelle delle palpebre, poi sulle guance fino a seguire la delicata morfologia del naso, e risalendo verso l’alto fino all’arcata delle sopracciglia e di lì scendendo di nuovo sugli zigomi.

A un certo punto, Sergio ritrasse la mano come se avesse toccato qualcosa di proibito. Fu come se si fosse accorto all’ultimo istante che stava varcando la soglia di un tempio sacro e proibito.

Alina allora prese la mano di mio fratello nelle sue e se la portò all’altezza delle labbra.

Sfiorandole con i polpastrelli, Sergio seguì la linea delle labbra carnose di Alina, andando da un angolo all’altro della bocca e poi ridiscendendo verso il mento.

«Hai visto?» gli sussurrò Alina, «Ora io fare altra volta come tu».

La ragazza, sempre tenendo gli occhi chiusi, sollevò una delle sue mani e posò le dita sul viso di Sergio, iniziando lo stesso percorso che prima mio fratello aveva compiuto sul suo.

Io osservavo, incuriosito, l’espressione che si era dipinta nel frattempo sul volto di Sergio. Giuro, era da tanto tempo che non lo vedevo così sereno e rilassato.

Quando ebbe finito, Alina aprì gli occhi e si avvicinò al volto di mio fratello.

«Ora va bene? Se vuoi noi fa lo stesso domani» gli disse, con gran pacatezza.

La sua voce sussurrata, nel silenzio di quella stanza, ebbe lo stesso effetto di una frase detta ad alta voce.

Sergio infatti sussultò, come se si risvegliasse da un sonno profondo.

Subito dopo parlò con un tono gentile che non gli riconoscevo da tempo, pur dicendo semplicemente: «Va bene».

Alina si alzò in piedi e io, nel timore di esser scoperto a curiosare, chiusi all’istante lo spiraglio della porta.

Mi recai in fretta nella mia stanza, mettendomi a riordinare alcune cose fuori posto. Cercai di fingere di essere impegnato.

Dopo qualche secondo, sentii Alina che salutava i miei e lasciava la casa.

Anche se mi sforzai di apparire tranquillo, quella sera a cena mi sentii innaturale.

Era chiaro che quanto avevo potuto osservare mi lasciava interdetto e incuriosito.

Eppure non si trattava di una sensazione spiacevole. Non so per quale motivo, ma in quel momento maturai la convinzione che doveva trattarsi di qualcosa di positivo; questa convinzione mi tranquillizzò.

Non dissi nulla ai miei.

Preferii scoprire da solo di cosa si trattava.

Da quel giorno, ogni volta che mi trovavo a casa e Alina era insieme a Sergio, mi misi a spiare ciò che facevano.

La scena cui avevo assistito si ripeté di continuo.

A volte i due se ne stavano seduti, a volte in piedi nei pressi della finestra.

In ogni occasione, essi ripetevano quella delicata esplorazione del proprio viso.

Ogni volta Sergio sembrava imparare qualcosa da Alina, e Alina s’immedesimava in quello che provava mio fratello.

Inutile aggiungere che cercai di fare sempre la massima attenzione per non farmi sorprendere in quell’atteggiamento infantile.

Li spiavo e davo per scontato che, così facendo, loro non si accorgessero della mia presenza.

Un pomeriggio ebbi, tuttavia, la prova di quanto mi sbagliavo. Alina, mentre Sergio le toccava il viso con le dita, rivolse all’improvviso lo sguardo verso la porta.

Seppur io non possa escludere a priori che potesse notarsi lo spiraglio da cui sbirciavo, sono convinto che dal punto in cui si trovavano nessuno di loro poteva accorgersi che c’era qualcuno dietro la porta.

Eppure Alina sapeva che c’era qualcuno.

Ne ebbi la conferma quando la ragazza portò lentamente un dito alle labbra, facendo cenno a quel qualcuno di restare in silenzio e non disturbarli.

Quel gesto mi spiazzò. Nonostante ciò, non chiusi lo spiraglio e rimasi rigido a osservare la scena. Come diavolo aveva fatto ad accorgersene?

«Cosa sente, tu?» disse lei dopo qualche secondo, rivolgendosi di nuovo a Sergio.

Alina continuò a comportarsi come se non ci fosse nessuno a osservarla. Dirò di più: mi sembrò come se tale eventualità non le desse il minimo fastidio.

«Riesco… Riesco a sentire la tua pelle, ed è… è vellutata… Io riesco a immaginarti… Io… io ti vedo!» rispose Sergio, con voce rotta dall’emozione.

Alina sorrise e prese le sue mani tra le proprie, portandosele al petto.

In quel momento, pur non riuscendo a vederlo chiaramente in volto, udii una distinta serie di singhiozzi.

Mio fratello, fino a quel momento un duro cuore di pietra che non voleva saperne più di niente e di nessuno, si stava commuovendo.

Fui tentato di aprire la porta, ma il silenzio che mi aveva intimato Alina mi convinse a desistere. Anche se non capivo come potesse sapere che c’ero io, dietro la porta, allo stesso tempo ero sicuro che sapesse chi c’era, dietro quella porta.

Alina a quel punto si alzò, allontanandosi da Sergio.

Si fermò nei pressi della finestra. Da quella nuova posizione, si rivolse a mio fratello dicendogli: «Ora tu alza e viene da me».

Rimasi allibito di fronte a quella richiesta.

Sergio, da quando aveva perso la percezione visiva, non si era mai spostato da solo, nemmeno per andare in bagno; come mi pare di aver già detto prima, a turno lo accompagnavamo io o mio padre.

Eppure Alina gli aveva chiesto di alzarsi e andare da lei.

Adesso la manda al diavolo, pensai.

Sergio, in effetti, rimase in silenzio per alcuni secondi, a metà tra l’indeciso e l’incredulo.

«Adesso tu deve fare tutto da solo… Io non posso più aiutare te» lo esortò Alina.

Il tono della voce però mi sembrò volesse intendere tutto l’opposto di ciò che diceva la ragazza; era proprio la sua voce lo stimolo più grande per Sergio.

Nel silenzio della stanza sentii, con mia grande sorpresa, le mani di mio fratello afferrare saldamente i braccioli della poltroncina su cui si trovava seduto.

Cambiai posizione, in modo da vederlo meglio.

Sergio fece forza sulle braccia e stava per alzarsi in piedi.

«Oddio! Fermo lì… Dove vai, sei pazzo?», fui sul punto di urlare.

Come un novello Lazzaro, Sergio si alzò e cominciò a muoversi.

Incerti furono solo i primi passi; man mano che muoveva un piede davanti all’altro, Sergio acquisiva sicurezza.

E, cosa più strabiliante, non incappò in un intoppo o ostacolo che fosse uno. Solo in un punto del tragitto Sergio posò un piede su una piega di un tappeto che si trovava vicino al letto, e sembrò inciampare. Fui tentato di precipitarmi per soccorrerlo.

La sicurezza con cui superò l’ostacolo, tuttavia, dimostrò che mi preoccupavo senza motivo.

Sergio percorse da solo il tratto che lo separava da Alina.

Quando giunse nei pressi della ragazza, questa aprì le braccia e lo strinse a sé.

A quel punto non ce la feci più.

Aprii la porta ed entrai.

«Sergio…», dissi soltanto.

Mio fratello si voltò verso di me, sorpreso di quell’irruzione.

Poi, con calma mi disse: «Vieni qua…».

Pensai che si sarebbe arrabbiato con me, come nell’ultima occasione in cui ci eravamo parlati.

Mi avvicinai, superando la mia ritrosia grazie a un cenno che fece Alina; quel gesto sembrava voler dire: Vai vicino a lui, fai come chiede.

Sergio sollevò una mano e la posò con delicatezza sul mio viso.

Aveva le dita fredde e, pur provando una sensazione sgradevole al contatto, lo lasciai fare.

Le sue dita cominciarono a esplorare i lineamenti e ogni angolo del mio volto come gli avevo visto fare con Alina, in precedenza.

Restare fermo mentre Sergio mi carezzava la pelle con le dita mi sembrò una cosa di un’idiozia unica, ma allo stesso tempo scelsi di non muovermi e di assecondarlo.

Sentii dentro di me che quella era l’unica cosa che contava, per Sergio.

Quella sembrò l’ultima occasione che mi si presentava; se non l’avessi colta al volo sono certo che avrei perduto per sempre mio fratello.

E così restai fermo mentre lui mi sfiorava il viso con le dita.

Quando ebbe finito, Sergio disse: «Marco… Io… ti vedo!».

Pronunciate queste semplici parole, scoppiò a ridere.

È impazzito, pensai.

Con uno sguardo, Alina mi convinse che ero nel torto.

Quella di Sergio era solo felicità.

Felicità autentica.

Sergio rideva forte, e continuò per qualche minuto; un riso crescente, che ben presto contagiò anche noialtri.

La stanza, da silenziosa che era, si riempì di clamore come se ci trovassimo in un locale pubblico pieno di gente che parlava in simultanea.

Gli schiamazzi richiamarono l’attenzione dei nostri genitori, i quali sopraggiunsero allarmati.

Vedendo di che si trattava, si tranquillizzarono. Certo, dobbiamo essergli sembrati tre pazzi, giacché non riuscivano ad afferrare il motivo di tanta incontenibile ilarità.

È il momento più bello che mi torna in mente, quando ripenso a quel periodo.

Da quel giorno, Sergio è tornato.

Non ha risolto il problema principale, ma adesso sa che deve superare l’ostacolo.

Sergio ha imparato a prendere coscienza che ormai vive in un nuovo stato delle cose, che deve accettarsi per quello che è, accettare quello che sono gli altri e condividere gioie e dolori quotidiani con le persone che gli stanno vicino e gli vogliono bene.

Da quel giorno, Sergio ha riacquistato una nuova vista.

E tutto ciò, per merito di una gracile e graziosa ragazza dell’Est.

Alina si congedò qualche giorno più tardi, quando fu sicura che la sua opera fosse ormai completa.

La accompagnai io stesso alla stazione; avrebbe preso un treno per l’estero dove, a quanto pareva, la aspettava una ghiotta occasione di lavoro.

Non scambiammo molte parole.

Io le dissi: «Grazie di tutto».

Lei mi rispose carezzandomi una guancia e mostrandomi uno smagliante sorriso di denti bianchissimi come sabbia di spiagge coralline.

Non ha detto nulla, è salita sul treno e non l’ho più vista da quel giorno. Oggi, ogni volta che mi capita di fissare gli occhi di mio fratello, non vedo qualcosa di spento; anzi, essi brillano di una luce potente, come se avesse ricevuto un dono in cambio del torto che gli ha fatto la vita.

E quella luce mi porta a ricordare altri occhi, neri e profondi come un oceano.

F I N E

Enzo D’Andrea

 

 

Altro in questa categoria: Le parole perdute e ritrovate »

Commenti