Apr 27, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Chi dice donna dice donna. E basta In evidenza

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Questa non è una recensione del libro di Dacia Maraini. Ne consiglio la lettura ma l’immagine della copertina serve qui a compensare in parte quella che ho riportato in apertura dei miei Appunti di giugno (copertina di F.T. Marinetti, Guerra solo igiene del mondo). In quegli Appunti, trattando della glorificazione della guerra, avevo citato un passaggio del Manifesto Futurista in cui si legge: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Vi avevo promesso di ritornare sul “disprezzo della donna” considerato, a quanto pare, una dote fondamentale del vero guerriero.

 

Nel 2010 fui chiamato da Marco Garzonio a collaborare a una raccolta di interventi dal titolo Il cuore dei preti. L’educazione sentimentale dei sacerdoti, che uscì con la prefazione del Card. Carlo Maria Martini (Edizioni San Paolo). Come potete immaginare si toccava, tra l’altro, la questione del celibato dei preti che, come quella del sacerdozio delle donne, faceva e fa grande fatica ad essere perfino discussa nella Chiesa cattolica.

Nel mio intervento (dal titolo ‘Chi dice donna dice danno?’) ricordavo, tra l’altro, che appare ancora radicata, nelle istituzioni totalizzanti, la millenaria diffidenza nei confronti delle donne. Sono ancora viste come un pericolo per chi, sia esso un prete o un soldato, abbia scelto per sostenere la sua causa una dura militanza e una ferrea disciplina interiore ed esteriore, che la donna, portatrice di affetti, emozioni e prospettive di lunga durata (amore, famiglia, figli, casa…) ma anche di idee, progetti, indipendenza e autonomia rispetto al maschio, può soltanto minacciare.

Come ritenevano, e in non pochi casi ancora ritengono, i capi delle milizie regolari o irregolari, una relazione stabile rende fragili e poco combattivi. Meglio un “amore” mercenario che un’unione duratura per di più con un/a partner tutt’altro che arrendevole e sottomesso/a.  Del resto, in tempo di guerra è sempre stato accettato, nei fatti anche se non nelle dichiarazioni ufficiali, lo stupro delle donne come bottino di guerra e il fiorire dei bordelli attorno alle caserme o agli accampamenti. Ogni “campo di Marte” è circondato da un “campo di Venere”, se non ben visto almeno tollerato dalle alte gerarchie, convinte che quello squallido remedium concupiscentiae, tranquillizzi le truppe, non le distragga dagli impegni bellici e tolga loro dalla testa il pericolo, insito in ogni relazione stabile e ricca di affetti e progetti con la donna, di perdere la voglia di rischiare la vita per conto terzi.

Dobbiamo liberarci dell’ipocrisia dilagante che vede una grande profusione di elogi e complimenti alle virtù femminili, lo strombazzare i successi di una donna che si afferma a fronte delle tante che non hanno nemmeno la possibilità di provarci, la parità virtuale dei diritti e una realtà quotidiana sconcertante. Dobbiamo ricordare che, se è vero che la donna non ama la guerra perché è abituata a pre-vederne le conseguenze, questo non significa che non abbia sempre dimostrato di essere un’indomita combattente, anche con le armi, quando sono in gioco la vita e la dignità propria e dei suoi cari, quando si tratta di lottare per la parità dei generi, per la democrazia e contro ogni forma di disuguaglianza.

Dobbiamo liberarci di troppe lobby se vogliamo contribuire alla lotta delle donne per una vera parità: quelle politiche, per le quali il riconoscimento reale  dei diritti e delle capacità delle donne, significherebbe uno sconvolgimento della distribuzione del potere e delle poltrone, delle gerarchie e soprattutto del modo stesso di concepire la politica, con conseguente drastico ridimensionamento del peso maschile nella vita pubblica; quelle del mondo del lavoro, dell’industria pubblica e privata, dei sindacati che, come avviene in politica, non osano parlare con chiarezza della questione e tacitamente emarginano le donne in posizioni subalterne; quelle religiose, soprattutto delle grandi religioni monoteiste,  storicamente responsabili insieme a quelle militari di avere instillato nelle coscienze l’idea dura a morire che le uniche donne accettabili siano la madre umile e silenziosa “angelo del focolare”, la servitrice fedele oppure la creatura nata per il piacere del maschio, un piacere naturale a cui bisogna però porre rimedio (la donna come remedium concupiscentiae) ma pericolosamente confinante con il peccato. Una creatura che, come abbiamo visto infiacchisce le virtù guerriere (anche nel senso della lotta per affermarsi nella vita e nel lavoro) del maschio, che tende a creare legami affettivi e radici stabili, mentre il maschio è servitore, lavoratore e guerriero migliore se non è appesantito dalle ragnatele tessute attorno a lui dalla donna-ragno.

Ma chi osa opporsi a queste lobby? Chi osa dire che “il re è nudo” e che oggi permangono vivi e vegeti vecchi pregiudizi contro le donne? In un mondo sempre più ingabbiato in guerre fomentate da “ismi” di ogni genere (nazionalismi, fondamentalismi, integralismi e fanatismi) chi si azzarda ad accusare i padroni della nostra vita? Ha senso parlare dell’educazione sentimentale ed affettiva senza riflettere sulla storia e sull’attualità della condizione femminile?

Non è sufficiente riconoscere quanto male sia stato fatto, ieri ed oggi, alle donne e quali vantaggi il mondo ricaverebbe dalla loro liberazione. Occorrono fatti: in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella ricerca scientifica, nell’espressione artistica, in politica, ovunque bisogna favorire l’affermazione piena della donna, avvalendoci tutti, finalmente di una risorsa preziosa: la sua differenza e la sua specificità.

In uno slancio di ottimismo, seguo quello che diceva Goethe: «Di ciò che è scaturito non siamo più padroni, ma siamo padroni di renderlo innocuo».

Fulvio Scaparro

Da “Il senno di prima. Appunti di Fulvio Scaparro”