Dec 06, 2023 Last Updated 11:06 AM, Dec 6, 2023

Di quanta luce siamo capaci, per guardare al nostro cammino? In evidenza

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Proviamo a ragionare per sottrazione.

In quale momento siamo maggiormente in grado di apprezzare la Luce?

Diremmo, per istinto, al buio!

Ma magari nel buio, persiste una condizione di “luminosità” del tutto anticonvenzionale che resta preferibile e verso la quale orientiamo la nostra personalissima scelta. Tale ragionamento, traducendo le metafore, può essere applicato alla proiezione sul senso della esistenza.

 

Al netto del gusto proprio, pensandoci, la luce può essere considerata anche come la rappresentazione di una idea di vita, di un modo di guardare a essa, di uno stile interpretativo più in generale.

Amando follemente la possibilità dell’arbitrio e spogliando ogni trasversale inclinazione dall’ombra (!) del giudizio, troviamo che Edgar Morin, filosofo, sociologo e saggista francese, sia riuscito perfettamente in un processo illuminante, subendo il fascino analitico di più focus sulla sua esistenza centenaria (e che gli auguriamo possa proseguire ancora a lungo!), nel tentativo di favorire nei lettori l’occasione di trovare una luce per scoprire la “Via”, nel suo “Lezioni da un secolo di vita” (Mimesis Edizioni). Ne scrive in prefazione, Mauro Ceruti: «Proprio in occasione del suo centenario gli ho chiesto: cosa possiamo, dunque, sperare? E lui: L’avventura umana è arrivata a una gigantesca crisi, nella quale si gioca il nostro destino. Ma, come sempre, anche l’improbabile e l’imprevedibile sono possibili. Sembra che Thanatos debba essere il vincitore. Ma, qualunque cosa accada, la nostra vita può avere senso solo prendendo le parti di Eros». Il testo è una casa, a parere di chi scrive, nelle cui finestre (!) si avvicendano aspetti che hanno strettamente a che vedere con quella declinazione di “Luce”, di cui sopra.

«Ho visto la mia poli-identità non come un’anomalia, ma come una ricchezza. Queste identità si susseguono in modo diverso, a seconda delle condizioni interne o esterne, nel mio Io e nell’Edgar che le integra. Chi sono io, infine? La vita, fenomeno terrestre, è in me. Sono un Tutto per me, pur restando quasi niente per il Tutto. (…) Sono il prodotto di eventi e di incontri improbabili, aleatori, ambivalenti, sorprendenti, inattesi. E nello stesso tempo sono Me stesso, individuo concreto. Ciascuno di noi è un microcosmo che porta all’interno dell’unità irriducibile del suo Me-Io, spesso inconsciamente, i molteplici Tutto» – afferma a proposito dei criteri identitari. E della danza tra ciò che accade e ciò che matematicamente può accadere, Morin dice: «Parliamo del caso. È evidentemente l’imprevedibile. Un solo colpo di dadi mai abolirà il caso, ma una successione di moltissimi colpi di dadi permette di riassorbire il caso individuale in una statistica collettiva. Il gioco della vita è tutt’altra cosa, poiché fatto di eventi singolari e non di colpi identici ripetuti. L’imprevedibilità rimane nell’irruzione dell’inatteso, accidente o creazione. La vita per ogni essere umano è a partire dalla nascita dell’imprevedibile, poiché nessuno sa cosa ne sarà della sua vita affettiva, della sua salute, del suo lavoro, delle sue scelte politiche, della durata della sua vita, dell’ora della sua morte. (…) L’essere umano, invece, non agisce sempre in modo prevedibile, specialmente nella sua capacità di innovare, di creare e, tramite ciò, di apportare dell’inatteso».

Leggere 2

Non aspettiamoci di trovare un libretto d’istruzioni, quanto piuttosto una raccolta di insegnamenti appresi sul campo: «Una delle grandi lezioni della mia vita è smettere di credere nella perennità del presente, nella continuità del divenire, nella prevedibilità del futuro. Vivere è poter gioire delle possibilità che la vita offre, cosa che ho appreso progressivamente. (…) Il saper vivere associa l’ispirazione alla “vera vita”, il bisogno di realizzare le proprie aspirazioni personali nella relazione permanente fra l’Io e il Noi, la qualità poetica della vita e la soddisfazione del desiderio di riconoscimento». Come si illumina il cammino? Non ha dubbi, Morin, che riporta la necessità del senso poetico e della passione: «Ho scoperto la parola che per me porta in sé una delle grandi verità della vita: poesia. Perché poesia e non felicità? Questi termini rimandano l’uno all’altro. Lo stato poetico dà il sentimento della felicità, la felicità ha in sé stessa la qualità poetica. L’emozione poetica ci apre, ci dilata, ci incanta. Nell’esaltazione suprema, può arrivare all’estasi, la sensazione di perdersi pur ritrovandosi in un rapimento o in una comunione sublime. (…) Ogni passione deve comportare un po’ di ragione che vegli su di lei, e che ogni ragione deve comportare della passione come combustibile». È sempre possibile amare la strada? Egli afferma: «Talvolta sono sommerso dall’amore per la vita. Quale bellezza, quale armonia, quale unità profonda, quale complementarietà e solidarietà fra i viventi. Tutte le antinomie mi appaiono inseparabili nella storia della umanità, come in tutte quelle storie che sono le vite individuali». E conclude, in nome di una vibrante circolarità: «C’è, infine, quel fenomeno sorprendente che capovolge una convinzione nel suo contrario: l’illuminazione. È ciò che è accaduto a Saul quando diventa Paolo sulla via di Damasco».

Virginia Cortese

Virginia Cortese

Giornalista pubblicista

Appassionata e onnivora lettrice

Considero i libri come finestre sulla vita, da aprire costantemente per imparare come comportarsi sulle strade del mondo.

I miei libri guida sono La Nausea di Sartre, Amore Liquido di Bauman e Il Libro del riso e dell’oblio di Kundera.

Mi piace contemplare e vivere il Bello, perché sono convinta che sia davvero l’antidoto al male. Adoro l’arte, la corrente espressionistica è senza dubbio quella che mi rappresenta in modo totale, il mio quadro del cuore è Notte Stellata sul Rodano di Van Gogh.

Una visione romantica e di prospettiva sulle cose non può esulare dal ri-conoscersi in un’opera lirica, la mia è La Bohème di Puccini.