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Il settimo consiglio In evidenza

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Il settimo consiglio che il beneamato Gabriel Naudé forniva nel suo libriccino, quella preziosissima opera dal titolo Advis pour dresser une bibliothèque dalla lettura della quale, esattamente sei anni fa, il quindici di febbraio del 2015, avviavo il mio giro intorno al mondo dei libri su queste pagine, riguarda l’ordine che conviene dare ai libri in una biblioteca.

 

L’Autore ammoniva difatti che di qualunque ammasso di libri si tratti, sia anche di cinquantamila volumi, se non sono disposti in un ordine, essi non meritano di essere considerati una biblioteca, proprio come anche un assembramento di trentamila uomini in una piazza, scriveva Naudé, non possa considerarsi un’armata, se non siano ordinati in caserme e guidati da capi e capitani, o come un ammasso anche imponente di pietre non possa, in definitiva, considerarsi un edificio, se non collocate secondo le leggi dell’ingegneria e dell’architettura.

La concezione, aristotelica per molti aspetti, di un ordinato sistema delle fonti – del sapere – a cui attingere, aveva una finalità evidente, modernissima: la reperibilità delle opere, la loro consultabilità. Seguiva, il signor Naudé, sul punto, con l’esposizione attenta delle direttrici di quello che potesse o forse dovesse essere il più ordinato allestimento della biblioteca, secondo la categorizzazione dei saperi all’epoca maturata.

A rendere soltanto più attuale, più descrittiva, più esplicita questa esigenza di ordine funzionale alla effettiva fruibilità delle opere custodite in una biblioteca, secoli dopo e in un altro continente, tra gli altri, pensò il signor Shiyali Ramamrita Ranganathan, matematico e bibliotecario indiano il quale nel 1957, a Bombay, consegnava alle stampe il suo The Five Laws of Library Science (Asia Publication House). Ranganathan, considerato uno dei padri della moderna biblioteconomia, riassumeva sotto queste brevi regole tutto quanto è necessario perché la biblioteca sia effettivamente una struttura di servizio e possa operare per la mediazione e la diffusione dell’informazione: «1. Books are for use; 2. Every reader his book; 3. Every book his reader; 4. Save the time of the reader; 5. The library is a growing organism.».

Chissà, magari avrò modo, o magari no, in futuro, di andare più a fondo, per quel che posso comprendere, in ciascuna di queste singole leggi, per ricavarne rinnovate suggestioni per il mio continuo trastullo, parallelo, anzi complice e sodale del mio scrivere opere che non vedranno mai la luce. Quello che mi preme rimarcare, per ora, è che anche il mondo del sapere, come il mondo, è oggetto di esplorazioni continue e, continuamente, ha necessità di mappe.

Come fa il lettore ad andare incontro proprio al libro che desidera o di cui ha bisogno? Come fa, se preferite, un libro a farsi trovare? Citavo mesi fa, su queste stesse pagine, un racconto di J. L. Borges e A. Bioy Casares, letto nella raccolta Cronache di Bustos Domecq su di un tale che aveva appreso, sfogliando un antico studio sull'arte della cartografia, che in una landa lontana «i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell'Impero, che uguagliava in grandezza l'Impero e coincideva puntualmente con esso». Nel mondo dei libri organizzati, il grado zero della descrizione, la topografia del luogo che perfettamente coincide con il luogo stesso, a prima vista, pare essere la collocazione dei volumi a scaffale aperto, dove la sequenza dei dorsi si offre allo sguardo del pubblico, dove ciascuno li può raggiungere, prendere, senza intermediazioni. Come nel mondo fisico l’entità fisica testimonia soltanto per sé stessa, così una roccia, un fosso, una golena, così il libro, ogni libro è il libro.

A ben guardare, tuttavia, anche lo scaffale aperto è un insieme ragionato, una ordinata sequenza. Per orientarsi nel mondo delle opere, e raggiungere così gli infiniti ulteriori mondi che ciascuna di esse contiene, esistono i repertori, gli inventari, gli inventari topografici, le bibliografie, i cataloghi. La mappatura del sapere segna ciascun oggetto, lo inventaria, lo scheda, lo colloca, tiene memoria della sua collocazione, ne indica varianti, numeri di copie, versioni, descrive le parti separabili ma non indipendenti di questa, lo spoglio, dà conto dei suoi autori, dell’editore e dello stampatore, dell’edizione, dell’anno, del tipo di supporto. Le bibliografie segnalano l’esistenza delle pubblicazioni, per rimanere a queste, i cataloghi ne indicano le collocazioni.

Ogni biblioteca ha un suo sistema, una sua mappa, un suo catalogo, che dice quali opere essa custodisca, descrive ciascuna di esse secondo gli elementi ritenuti salienti, indica dove ciascuna di esse si trovi: scaffale, palchetto, e numero di catena, coerente questo con quelli delle opere che precedono e seguono questa nella sua collocazione fisica.

I cataloghi, come carte geografiche, per così dire, arricchite come nella realtà aumentata, indicano di ciascun elemento anche la famiglia alla quale esso può essere ricondotto, a quale ramo della scienza, a quali conoscenze tecniche, a che tradizione letteraria, a quale lingua.

Di queste mappe, esistono codificazioni internazionali, pressoché universali, e queste mappe, oggi, si integrano le une con le altre. Esistono pratiche come la catalogazione partecipata e la catalogazione derivata, attraverso le quali, partendo anche dai più distanti angoli dei territori del sapere, si arriva a coprire pressoché tutta la sua superficie, per tutta la sua propria estensione, come codificata e conoscibile.

I cataloghi delle singole biblioteche vengono condivisi con quelli delle altre e, ancor più con l’introduzione della catalogazione automatizzata, che vede convergere i modelli di descrizione degli oggetti indicizzati e raccogliere le informazioni in maniera potenzialmente estesa, da ciascun punto di questa rete si può partire per qualunque ricerca.

I punti di accesso, gli elementi dai quali si può partire: autore, titolo dell’opera, o materia, o tipo di documento, o disciplina, o categoria specifica, o lingua o qualunque altra caratteristica codificata, consentono di mettersi alla ricerca di qualunque entità catalogabile. I cataloghi oggi dicono se un’opera esiste e dove essa è collocata.

Accade addirittura, poi, che per descrivere e indicare la collocazione di una roccia o d’un fosso ci vogliano più parole che “roccia” e “fosso”, perché è utile dire di che minerale è la roccia e di che forma il fosso, e dove stanno l’una e l’altro, e se ce ne sono di uguali, e chi l’ha scolpita e chi l’ha scavato, e se chi ha scavato quel fosso ne ha scavati magari anche altri e... Così è anche per le opere catalogabili. Si formano quantità enormi di dati, di informazioni, che governano le relazioni tra gli oggetti catalogabili. E si arriva ai metadati: le informazioni sulle informazioni sugli oggetti, anch’esse da organizzare, anch’esse organizzate.

Non posso dire che tutto il mondo dell’alacre sistemazione del sapere mi fosse presente quando, ragazzino, mi recavo per le prime volte in una delle biblioteche pubbliche della mia città e, dopo aver segnato il mio nome nel registro d’ingresso, mi trovavo, un po’ timoroso, molto fiducioso, davanti all’imponente mobile a cassetti dello schedario cartaceo. Però ricordo che avvertivo un che di prodigioso, di sacro, nel tirare un cassetto contrassegnato dalle lettere desiderate del catalogo per autori o del catalogo per soggetto e nello scorrere con un movimento rispettoso delle dita quelle piccole schede di sette centimetri e mezzo per dodici centimetri e mezzo, consultarle, decifrare sommariamente le informazioni distribuite tra segnatura, punto d’accesso, descrizione, tracciato, annotare la prima e anche la descrizione sul mio quaderno prima ancora che su un modello, domandare il permesso di prendere un volume.

Nello scorrere di quelle schede, nel rivelarsi di quei codici celati, di quelle sequenze alfanumeriche che custodivano i segreti della collocazione fisica di un libro, nell’imporsi di quelle punteggiature strane che precedevano anziché seguire le parole, e a esse, così, conferivano significati profondi, misteriosi e fatali, provavo probabilmente le stesse emozioni di quanti, in ogni epoca, sempre corrano febbricitanti col polpastrello lungo la linea di faglia di un complesso montuoso, circoscrivano una depressione desertica o un altopiano, seguano l’estuoso fluire di un affluente, si fermino proprio su una cima o prima d’un estuario, assecondino per un tratto una costa, fino ad arrivare al luogo promesso, in questa pluralità di mondi che intersecano i nostri mondi che è sotto gli occhi di noi tutti e che non riconosciamo per tale, perché la sua vastità ci sgomenta. 

Rocco Infantino

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

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