E continua ancora oggi a erudirci: “Sembra che sia una questione grave ed è difficile comprenderlo, non solo perché esso presenta l’apparenza della materia e della forma, ma anche perché lo spostamento della cosa trasportata avviene nell’interno dello stesso contenente, che resta in riposo; appare, infatti, che il luogo possa essere un intervallo intermedio, diverso dalle grandezze che si muovono” (…). Oltre la componente squisitamente estetica (che rimanda a transiti di strutture e dunque di forma e di visione), resta da declinare ciò che s’intende per Arte.
“Hegel – suggerisce il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti nel suo “Parole Nomadi” (ed. Feltrinelli Saggi) - nell’Enciclopedia colloca l’Arte non nello spirito soggettivo ma nello spirito assoluto, cioè nello spirito sciolto (ab solutus) da ogni legame con la soggettività dell’artista. (…) L’arte è tale in quanto simbolo di una composizione di senso che l’umanità ha per la prima volta espresso e raggiunto nell’opera. (…) La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla stretta e dall’ostacolo di quanto è personale. Non c’è ricerca di causalità, la produzione va oltre l’individuo”. E quindi, oltre il luogo ci verrebbe da aggiungere. Tale indipendenza dell’arte “approfitta” dello spazio per nutrirsi e per modellare se stessa, secondo ciò che vuole divenire, per dirla con C.G. Jung. Ciò che “ella” diviene ha stretta pertinenza con ciò che mostra (oltre ciò che è, ma della creaturalità dell’arte non preferiamo occuparci in tale sede!), più espressamente con la sua Superficie.
Ma cosa avviene quando si de-compone proprio uno spazio (d’arte letteraria, nella fattispecie) convenzionale, quando si tenta l’esercizio del nomadismo delle parole? Accade ciò che abita nel testo “Superficie” (Einaudi) dell’illuminato scrittore Diego De Silva. Una pubblicazione in cui ogni “luogo comune” (!) viene smontato, rovesciato, che è un gioco ma è anche una sarabanda dell’intelletto. Un susseguirsi di emanazioni di pensiero, come nei flussi di coscienza di joyciana memoria, che non trascura il reale, che consente una interlocuzione tra gli strati e la linfa. Che agevola un battibeccare con se stessi e con il mondo. Che si interroga sulla verità. Che si s-lega dalla radice e che vola. Che ritorna a terra e riflette.
“Se pensi che il tempo non esista, dai un’occhiata a una tua foto di cinque anni fa”. “Voglio un passato migliore”. “Non riesco a fare a meno del profumo della carta”. “Le poche volte che ho incontrato la verità, non era mai nel mezzo”. “In fondo, sono ancora un bambino che continua a emozionarsi per le stesse cose”. “Alla fine, si scrive sempre d’amore”. “Si è soli senza qualcuno in particolare”. “Non è che dobbiamo sentirci vivi per forza”. “La gentilezza è un eccesso naturale”. “Ne avessi uno, di ricordo affidabile”. Una serie di luoghi irrinunciabili e poetici, con un orizzonte grande e un altrettanto vasto senso dell’Arte.
Virginia Cortese