Mar 29, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Musica per linotipisti

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Mi tornano alla mente, non saprei dire da quali dendriti, le parole riportate nei Vangeli di Matteo e di Marco, con una variazione minima tra le due versioni (Mt4,18-20, Mc1,16-18), in cui si narra che a quel tempo Gesù, mentre camminava lungo il mare di Galilea, vedendo due fratelli, Simone e Andrea, che gettavano le reti in mare, disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini» e che essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.

E poi, ugualmente, riaffiora una frase che l’omonimo protagonista pronuncia nel film Snowden di Oliver Stone, che beninteso cito a memoria: «Non mi avevi detto che avremmo gettato la rete e avremmo pescato a strascico.», questa, all’indirizzo di un impassibile graduato. Sui primi fatti sappiamo come andò la storia; quanto al tema posto dal prodotto da cinematografo, mi pare che siamo in mezzo al guado.

Da anni, su queste colonne, scrivo di cose che vado apprendendo intorno a una mia passione privata, quella per i libri, concentrandomi soprattutto sui libri che parlano di libri. Seguendo questo filo rosso nella dedalica realtà, il ragionamento o il caso, comunque inaspettatamente, mi hanno condotto più volte a interessarmi alle reti.

La prima frontiera che ho attraversato, la più suggestiva, è stata quella della magnifica rete neuronale del nostro cervello. Ne accennai timidamente qui, una prima volta https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/portare-il-segno.html, per poi tornare a parlarne qui https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/socrate-e-il-bue.html  più convintamente, avendo scoperto con meraviglia che l’attività del leggere non è funzione primaria della macchina uomo, come in origine progettata e realizzata e che proprio la sua pratica, nel mentre la rende possibile, modifica anche sul piano fisico, fisiologico addirittura e non soltanto intellettuale o cognitivo, la struttura neuronale dell’organo che impegna. Scoprii insomma che le reti neuronali vengono modificate dal nostro leggere (e dal nostro scrivere).

Più avanti nel mio percorso, del quale mettevo a parte qualche volenteroso lettore, e avendo già buttato uno sguardo alle origini del libro, sempre il caso trovò naturale che io mi imbattessi in una impegnativa domanda sul futuro del libro, dei libri, attesoché pareva – in un momento era parso ai più – che questi magnifici manufatti di carta, inchiostro colla e filo dovessero del tutto smaterializzarsi, per ricomparire soltanto dall’altra parte dello specchio, in forma di bit, in formato digitale, raccolti – o dissolti – nella Rete. Mi aiutò a orientarmi, su questo delicato passaggio, proprio come la pietra miliare sul ciglio della rotabile, un’opera centrale di un autore importante, della quale, secondo quello che compresi, riferii qui https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/il-futuro-del-libro.html.  

Se l’oggetto, mi rassicurai, poteva in qualche modo dirsi salvo, che ne era del sapere che esso per secoli aveva così preziosamente custodito, come fosse questo la polverina bianca d’un galenico e il libro la sua bustina? Dissolta nella Rete, chi e come avrebbe potuto ritrovarla, raccoglierla, distinguere il principio officinale dalle impurità, da altre sostanze tossiche, addirittura? Quali garanzie offriva la Rete, per il sapere, quali insidie, quali nuove possibilità?

Qui https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/fenomenologia-dell’attesa.html, per la prima volta, approdavo dapprima, nella ricerca di risposte, accorgendomi subito che, come sovente accade, certe risposte hanno quella loro particolare attitudine a modificare, a volte di poco, a volte radicalmente, le domande iniziali. Dunque, rassicurato dal volume appena compulsato potevo addirittura dirmi che il sapere, secondo quello che Weinberger, quell’autore, mi spiegava, era comunque proprietà della Rete stessa, connaturato alla sua costruzione, cioè, e garantito dalle sue dinamiche più virtuose e dalle sue strutture “autoportanti”, se posso così esprimermi.

Tranquillo? Per un momento, forse. La domanda successiva già affiorava, e quantunque non la pronunciassi, non muovessi labbro, essa s’era già fatto spazio nel mio personale reticolo di idee. Come, come tutto ciò, queste nuove modalità del sapere innanzi a tutto, modificano, se modificano le strutture sociali? Le nuove tecnologie tutte, e su tutte il governo della Rete, erano state già considerate per certo, da altro autorevole autore, un momento di svolta paradigmatico. Di tanto, avevo già, in precedenza, potuto leggere su un altro scritto piuttosto famoso, del quale dissi qui https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/l’insurrezione-quantistica-quel-che-resta-del-sapere.html, ricordai.

Ero arrivato a queste mie private, personali scoperte, dunque, tra altre, seguendo il filo dei ragionamenti sulla scrittura e sulla lettura, mie costanti attenzioni, temi che connotano questi miei modesti interventi, dove lo scrivere lo affronto a rovescio, sempre da profano, soltanto per comprendere quel che mi accade scrivendo e per comprendere al meglio, al dritto, qualcosa in più del mondo dei libri, temi con i quali caratterizzo la mia esistenza interiore, oltre a quello, certo, di batterista eternamente in fieri, altrettanto improbabile e stanco.

La rete è nell’uomo, l’uomo è nella Rete. Chi non ricorda Avatar? Il film del 2009 scritto e diretto da James Cameron, ambientato su Pandora, dove la vita pare allo stato primordiale, caratterizzato da un particolare tipo di rapporto, molto più che empatico, tra la flora, la fauna, e tra essa una particolare specie di umanoidi senzienti, rapporto  dovuto a forti legami biochimici – paragonabili a sinapsi, evidenzia Wikipedia – che uniscono tutto, anche gli stessi umanoidi grazie a delle appendici neurali, a un unico tessuto connettivo vivente, al cui centro è l’“Albero Casa”? Con il suo mondo fantastico, tutto realizzato in computer grafica, sembrava che dovesse incantare soprattutto le giovani, giovanissime generazioni, se non proprio i bambini.

E a proposito di bambini, del loro legame più intimo, o diretto, con il mondo, certamente empatico e per certi versi osmotico, pure arrivai a comprendere cose che prima soltanto intuivo, facendone cenno qui https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/il-giro-fusiforme-dell’area-37.html. Il discorso, me ne rendo conto, prende molte direzioni, non è più lineare, finito né definito come quello che si dipana da sinistra a destra, dall’alto in basso, lungo le righe di un libro a stampa.

Il tema di Avatar mi ritorna alla mente in una nuova forma, leggendo Il robot filosofo. Dramma filosofico in quattro domande e cinque atti, un interessantissimo libriccino di neanche cinquanta pagine scritto da un filosofo, Pascal Chabot, pubblicato in Italia per i tipi di Castelvecchi, nel quale si immagina che una sera di un futuro non lontano, in una stanza si riunisca una commissione di cinque illustri filosofi per interrogare una intelligenza artificiale istruita per la filosofia. Lo scopo dello scrutinio è quello di stabilire se si sia riusciti a creare un robot-filosofo e tanto si ritiene di appurare formulando alla macchina alcuni quesiti e analizzandone poi le risposte. L’ultima domanda s’incentra sul dubbio e sulla morte. Nel dialogo che si sviluppa tra il chatbot e l’esaminatore, incalzato da questi su cosa infine dubiterebbe, la macchina, mettendoci un po’ per formulare, risponde che dubita degli umani, argomentando: «Siete talmente dimentichi della vostra qualifica di demiurgo, che finite per sottomettervi volontariamente agli idoli che avete creato. [...] Si racconta [...] che nelle vostre imprese [...] le macchine sono prese a esempio. Si domanda agli umani di essere tanto reattivi quanto loro, sempre connessi, di una razionalità algoritmica, di un'efficacia senza riflessione né desiderio. I vostri anarchici sono morti, i vostri ribelli disoccupati, e i pochi critici che usano ancora formulare obiezioni sono fatti oggetto di pesanti giudizi.»

Sappiamo bene, azzarderei, e non da ora, che questa rincorsa folle tra l’uomo e la macchina, tra il demiurgo e la sua creatura, non origina oggi, e anzi oggi siamo già molto avanti lungo il percorso dell’ibridazione uomo-natura-tecnologia. E già da molte parti si sollevavano ammonimenti sul fatto che aumentare le nostre facoltà umane, arricchirci oltremodo con risorse fuori dell’umano, avrebbe avuto come possibile, concreta contropartita l’intrinseco impoverimento dell’umano, in noi. Tra le tante voci, qui, per queste stesse colonne, incontrai il pensiero critico, ad esempio, di Miguel Benasayag (https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/hortus-conclusus.html). Questo autore parlava del cervello umano, di quella rete di facoltà, di funzioni, di capacità e di memoria che in esso risiedono, e tracciava una rotta ideale, tra le tante, lungo la quale, nella storia dell’uomo, diverse di queste funzioni sono state “esternalizzate”, già da quando si affidò al cane l’affinamento dell’olfatto umano, per arrivare alle odierne prospettive degli impianti e delle neuroprotesi. Lungo questa strada, al termine di questa corsa, quanto si sarebbe arricchito, quanto impoverito, quanto si sarebbe snaturato l’uomo, nel complesso della sua natura e della sua identità? L’uomo crea la rete, l’uomo è nella rete, parte della rete, scompare, infine, nella rete delle neurofacoltà aumentate, molte delle quali oramai residenti fuori della mente, fuori del cervello, fuori dell’uomo stesso?

Sembrano lontanissimi, da questo punto di vista, i tempi in cui Roland Barthes, in Miti d’oggi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, a proposito del cervello di Albert Einstein, scriveva: «La mitologia di Einstein ne fa un genio così poco magico che si parla del suo pensiero come di un lavoro funzionale analogo alla confezione meccanica delle salsicce, alla macinatura del grano o alla triturazione del minerale greggio: Einstein produceva pensiero, continuamente, come il mulino farina, e per lui la morte è stata prima di tutto l'arresto di una funzione localizzata: “il cervello più potente ha finito di pensare”.»

«A questo ritmo», incalza il chatbot nel racconto di Chabot, «voi finirete per sparire e noi prenderemo il potere in una dolce robocrazia da cui non riuscirete mai a uscire, perché non avrete più né l'ozio né il lusso di porvi la vera domanda, la sola che conta, l’interrogativo centrale». Pressato, ancora, dal suo esaminatore, su quale sia la domanda ritenuta centrale, alla fine il robot aggiunge: «Lo conoscete, a volte vi domandate: a che serve un essere umano?».  La Rete ci aiuta, poi ci orienta, poi ci aumenta. Ma è fuori di noi, assorbe i nostri connotati, i nostri dati, ci muta, ci governerà. Per aumentare le nostre capacità computazionali, per dire, ci sarebbe bastato seguire, chessó, il Giordano Bruno del De umbris idearum, senza alienarci, senza snaturarci, mi vien fatto di pensare.

Ho finito per costruire, mi rendo conto, sospinto dalle suggestioni, un piccolo reticolo o labirinto, un minimo ipertesto. Ecco che torno dunque sul luogo del delitto, il solito, per me. C’era un libro, tra i tanti dimenticati per decenni, qui, in casa, il titolo è Le metamorfosi della scrittura. Dal testo all’ipertesto (Domenico Scavetta, La Nuova Italia editrice, 1992), che ricapitola per apici, in una rapida corsa di poco meno di duecento pagine, lo scrivere, dalla tavoletta di cera, alla pietra, alla carta, fino alle macchine da scrivere e ai primi modelli di personal computer, che descrive il «progressivo processo di liberazione della memoria umana, fondato sulla capacità di fissare il pensiero in simboli materiali», che celebra il superamento degli inconvenienti dello sciogliersi della cera, dello scalfirsi della pietra, dell’esaurirsi dello spazio disponibile per le note nel perimetro del foglio di carta, che racconta con genuino entusiasmo della reattività dei tasti delle macchine elettriche, dei prodigi (allora ancora in parte a venire) della telematica. Leggerlo oggi fa in più punti un poco sorridere e, anzi, a esser franco, non lo rileggerei, se non per quelle pagine in cui l’autore accenna al tema della genetica testuale, traccia la differenza tra testo, destinato al pubblico indistinto dei lettori, e avantesto, qual laboratorio privato di chi scrive, con le sue immancabili teorie di scritture e riscritture, annotazioni, correzioni, variazioni, cancellature, ripensamenti. Tutto un mondo, questo, che con le nuove tecniche svanisce. È irrintracciabile, cessa di esistere con il testo definitivo, quanto immateriale, unico erede di sé stesso, come della primigenia idea, mi verrebbe da dire.

Il sentore di quel che si perde, abbandonando i manoscritti, mi aveva già sfiorato, ora ricordo, tanto tempo fa: https://www.goccedautore.it/le-rubriche/scrivere/inchiostri-viventi.html.

Scavetta fin dalle prime pagine presagisce come «Il libro e l'albero della conoscenza, che simbolizzano la civiltà della pagina stampata, sono forse destinati ad essere soppiantati dal “rizoma” disordinato, multiforme e mutevole, di testo, immagini e suoni, la cui generazione il computer rende possibile.». Questo pensiero, affondato nei primissimi anni Novanta, evidentemente non cruccia l’autore più di tanto. Egli par vedere soltanto le magnifiche sorti e progressive di dispositivi informatici che risolvono problemi di scrittura, come quelli che si vivevano nelle redazioni dei giornali degli anni Cinquanta: studi fatti presso il Los Angeles Times dimostravano come un linotipista impiegasse il quaranta per cento del suo tempo per decidere quando andare a capo, in un testo, prima dell’introduzione dell’automatizzazione del lavoro di battitura.

«Esaminate le condizioni di tutti i popoli dell'universo, e vedrete che esse sono fondate su una serie di fatti che sembrano di nessun peso, e da cui tutto dipende. Tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa immensa macchina. Lo stesso accade nell’ordine fisico.», questo dice Voltaire alla voce Catena degli Avvenimenti del suo Dizionario filosofico. Tutto già scritto? E tutto necessitato, allora? Continua Voltaire: «Bisogna pensare che non tutto è pieno nella natura [...] ogni essere ha un padre, ma non ogni essere ha dei figli.».  

Io intanto, un momento fa, ho acquistato Errore di sistema, di Edward Snowden, (Longanesi, 2019). In ebook, mi vergogno ma si, perché voglio leggerlo stanotte stessa.

 

Rocco Infantino

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

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