Apr 16, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Esplorando il delitto - parte III

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martin

(parte terza) 

Non sembri banale, ma quanto sia difficile indagare quello che sta nella testa di qualcuno, questo soltanto, prima ancora di poter arrivare a ricostruire un qualunque fatto accaduto, una qualunque azione riconducibile a questa persona, nella banalizzazione, invece, della realtà cui siamo abituati, spesso lo dimentichiamo.

 

Altrove, da queste stesse colonne, avevo fatto cenno al Robert Pinget autore di Monsieur Songe; a distanza di molti anni da quella lettura, proprio di recente arrivo a procurarmi una copia di Inchiesta su Mortin, stampato in Italia per Einaudi nel 1970 nella collana Letteratura, della quale non mi pare di avere altri volumi. Nonostante l’ammiccamento del titolo, non dovrebbe dirsi propriamente un giallo, ma finisco casualmente per leggerlo, parallelamente ad altri, un pomeriggio, proprio mentre mi sto occupando, per questo mio gioco, di questi temi.

Inchiesta su Mortin è un testo efficace. Diviso essenzialmente in tre parti, ruota attorno a un personaggio, Mortin, appunto, uomo in definitiva piuttosto schivo, e alla sua scomparsa. Nella prima parte del libro, davvero d’effetto, due persone, alternandosi, spiano i movimenti di un uomo in una stanza attraverso il buco della serratura. Quel che osservano direttamente, insistitamente, senz’altro filtro e con una visuale solo appena in qualche angolo limitata dalla particolarità del punto di osservazione, non basta loro, comunque, per farsi un’idea certa di cosa quest’uomo stia facendo, men che meno, pur nello svolgersi e reiterarsi di gesti e di atteggiamenti ben evidenti, cosa egli abbia in mente, cosa abbia intenzione di fare, perché faccia le cose che fa. È, questa, una rappresentazione molto ben riuscita della impossibilità vera di comprendere totalmente un fatto, dei comportamenti e una persona, neanche quando essi si parino così, senza nessun velo apparente, davanti ai nostri occhi di osservatori. La seconda parte del libro è una raccolta di testimonianze di diverse persone che conoscevano Mortin medesimo, che si assume, nelle more, morto. Sono interviste che sembrerebbero destinate a una trasmissione radiofonica celebrativa della figura dello scomparso – per inciso, uno scrittore –, ma lasciano il dubbio che possa trattarsi di interrogatori per raccogliere elementi sulle circostanze della sua scomparsa, proprio dalle persone a lui comunque più vicine. In ultimo, con una scansione precisa, la terza parte del libro è occupata da un memoriale di chi, per un certo periodo, era diventato forse amico, forse servitore di Mortin.

È un fatto, che alla fine della lettura, non si sia in grado di ricostruire cosa sia davvero accaduto a Mortin – è morto di morte spontanea? È stato ucciso, o si è suicidato? – e perché. Non bastano a risolvere il mistero né la diretta osservazione del suo comportamento, né la considerevole quantità di parole consumate in maniera libera, disordinata e troppo personale dagli interrogati e, men che meno, il memoriale/diario del suo amico-servitore, che finisce inevitabilmente per illustrare dippiù il mondo di chi scrive, che l’oggetto stesso della sua attenzione. Nella breve nota al testo, di Guido Neri, si legge proprio questo, e cioè che «Si sono così sperimentate successivamente tre diverse forme di resistenza alla ricerca: prima la carenza di senso, la frustrazione di fronte al puro silenzio delle immagini; poi, la sovrabbondanza caotica, dissociata, aggressiva del discorso orale personalizzato; infine, una specie di inversione del corso interpretativo, nella messa a distanza operata dalla stesura scritta.».

«La soluzione del problema deve essere sempre evidente [...]. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall’inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che [...] avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine.»; questo prescrive la quinta delle venti regole di Van Dine sul poliziesco, che già citai. Anche solo la semplice applicazione di questa regola basterebbe dunque, se questo fosse il fine di queste riflessioni, a chiarire che Inchiesta su Mortin non è un giallo, come in effetti non lo è, neanche secondo me. Il libriccino di Sciascia che favorì l’abbrivio di questo itinerario intorno al delitto già ci ricordava, lo dicevo, un caso tutto italiano di un impianto giallo senza soluzione, il pasticciaccio scritto da Carlo Emilio Gadda, sul cui intrinseco valore, peraltro, e per vari motivi, non c’è tanto da discutere.

Ma in questa perseverata ancorché sommaria e incompetente ispezione dei caratteri della letteratura gialla, non ero mosso, lo voglio ricordare, da astratte velleità classificatorie, quanto piuttosto, come spesso accade, dalla necessità di comprendere qualcosa nel mio mondo interiore, attraverso due delle sue più suggestive manifestazioni di superficie, e cioè i percorsi delle mie letture, apparentemente casuali, certamente non pianificati e i motivi per i quali una storia che sto scrivendo prenda una particolare direzione.

Tra letteratura gialla e letteratura, intanto, me lo suggerisce una nuova lettura della quale pure riferirò poi, può darsi che corra quella linea sottile di demarcazione che distingue, nella lingua eletta del Simenon del quale pure arriveremo a parlare, la parola enquête dalla parola quête, e cioè la differenza, tutta esistenziale, nella definizione didattica tra una procedura amministrativa o – per l’appunto – giudiziaria ordinata per acclarare dei fatti e la ricerca di un significato. Il giallo preso come tecnica si presta a entrambi i fini – perché no? – e così prestandosi pare che continui a confermare l’ipotesi che il vero delitto possa essere l’esistenza, esistenza che spesso non spiega i fatti e che altrettanto spesso mette in ombra il vero significato, il senso profondo delle cose. Forse per questo “l’ambigua ragione per cui si scrivono i gialli”, secondo l’espressione di Sciascia, spesso è lo stare dalla parte dell’assassino, l’identificarsi con l’assassino almeno per metà. Il caso dunque non è chiuso. (Continua)

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

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