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Una indagine di Oberdan

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ovvero

la forza del brocardo

raccontoinedito 1

Anni fa, quando ero sostituto procuratore della Repubblica e non ero transitato ancora nei ruoli della magistratura amministrativa, vi era nell’ufficio della mia Procura, fra i tanti,

 un funzionario particolarmente solerte e presente, discreto e gentile, del quale tutti i colleghi non parlavano che bene. Tutti. È vero, io facevo spesso tardi nel mio ufficio, anzi sempre. Il mio lavoro e poi il ruolo me lo chiedevano: non avevo orario. E lui, lui pure era sempre lì. Ogni sera, la luce del suo studio accesa ancora mentre gli altri erano già via da tempo, il dottor G. era lì, al suo tavolo, tra le sue carte. Attinto per buona parte dal tronco di cono del fascio di luce della sua lampada figlia di una fornitura di modelli degli anni Cinquanta, la cui calotta gli spingeva occhi e zigomi nell’ombra e ne imponeva invece il mento alla luce, rendendolo nei fatti quasi come che fosse un uomo mascherato. Ah, se non ci fosse lui! Un  vero esempio di attaccamento al lavoro, di senso del dovere; forse addirittura, chissà, di senso dello Stato. E tutti in quell’ambiente ne parlavano con ammirata benevolenza. Ogni comportamento umano è figlio di una condizione, io credo, addirittura con un po’ di coraggio ci si potrebbe spingere a ritenere che ogni comportamento umano abbia un suo perché. Sollecitato più dall’aspetto unanimistico e corale della considerazione della quale il funzionario dottor G. godeva presso gli altri, più forse che non dal giudizio in se stesso, nei canali di drenaggio della forza psichica che la mia mente come quella di molti si scavava da sé per portare su e giù stimoli e scarti da e verso ragionamenti consapevoli, a mia insaputa e poco a poco si formò la volontà di saperne di più. Mi accorsi di questo, mi accorsi cioè che stavo già iniziando a raccogliere elementi sullo stimato dottor G., quando già l’attività era in corso, avendo io preso da giorni a praticare l’indagine del tipo più efficace, quella vera seria – ancorché irrituale – e ficcante, quella che si fa partecipando con colleghi e collaboratori in luoghi di fortuna ed in regime di semiclandestinità alla pausa per bere in ufficio il caffè della moca. E lì, con la tazzina in mano quando non con il bicchierino di carta, buttando a chi c’era qualche domanda come l’esca per un pesce di lago. Avevo a quel punto, inutile negarlo, una griglia precisa di ipotesi già messe per bene nell’ordine di priorità dato da rilevanza, cogenza, verosimiglianza e non dovevo far altro che trovare riscontri, pesarli, delibare. Mi informai quindi dapprima, ovvio, se fossero in vista fondi per lo straordinario. Mesi che per quel personale non ne arrivavano e non se ne pagava. Magari c’era stato qualche generoso quisque al ministero che aveva sbloccato qualche risorsa e gli impiegati tutti, il dottor G. compreso, coccolavano ora ragionevole aspettativa di un miglior guadagno, qualche bella mensilità più pesante, due, tre, finché durava. Avrebbero già dovuto incaricarsene le più elementari leggi della fisica per le quali la burocrazia della giustizia come ogni altra burocrazia perfetta riservava la più pedissequa osservanza, quelle stesse che volevano che in mancanza di un rivoluzionario impulso estraneo, più che il moto, la condizione di quiete di tutta l’amministrazione era previsto che dovesse conservarsi immutata, ad indurmi a scartare la regina delle motivazioni. Nessun illuminato dirigente centrale ci aveva messo del suo, mi fu detto; del pagamento degli straordinari al personale non togato non se ne sarebbe parlato, come effettivamente poi fu, per altri mesi, fino all’anno dopo. No, non era per lo straordinario che il dottor G. rimaneva da tempo remoto e fino a tardi e costantemente al suo posto ogni giorno, anzi ogni sera, a lavorare. Se dovevo dunque rinunciare al motivo numero uno, il numero due invece si appellava alla geografia dei luoghi, alle dinamiche socioeconomiche, alla teoria dei flussi, alle difficoltà sociali contingenti, al meticciato lavorativo, alla mobilità ed infine alla visione globalista della vita. Magari il dottor G. era un fuori sede. Il treno, l’unico treno possibile per il ritorno quotidiano reiterato alla sua Itaca magari partiva tardi: meglio attraversare quelle ore bianche e senza prospettiva in un luogo che dandogli una qualche funzione mostrasse di conoscerlo, e di riconoscerlo, rassicurante e indifferente assieme, anzi tanto più rassicurante quanto più indifferente, piuttosto che a vagare per le strade. È per la strada che crescono i dubbi, è la strada che ti fa incontrare gli sconosciuti, è la strada che alimenta e poi ospita le rivoluzioni; di questo chiunque potrebbe convincersi da sé, se ogni tanto nelle stazioni, nei supermercati ed anche in certi ristoranti equivoci assai, qualche lucido pazzo decidesse di mandare in diffusione le canzoni di Giorgio Gaber, faccio per dire, invece che la solita poltiglia musicale. O più semplicemente, ma anche più innegabilmente, per la strada c’è vento, c’è traffico, spesso piove. E invece. Il dottor G., si, quasi lo vedevo mentre davanti al notaio svariati anni prima aveva avuto un ghigno strano che nessuno degli astanti, interrogandosi l’un l’altro con lo sguardo, era riuscito a comprendere e che era, ora lo so, era proiettato nel futuro e diretto a me, mentre formalizzava un rogito per ottanta metri quadri (certo, certo, commerciali) cucina abitabile a non più di cinquecento metri dagli uffici della Procura, dove aveva subito stabilito la residenza ed il domicilio del nucleo familiare. Quanto, quanto, quanto caffè! E quanto ancora ce ne sarebbe voluto. Trangugiarlo, talvolta buono talaltra no, era il segno stesso della mistica della conoscenza dei fatti, per me, era il mio pane azimo, che in quel periodo assunsi con regolarità, convinto della purezza dei fini, la conoscenza dei fatti per il valore che ha in sé conoscere i fatti, un po’ meno convinto della linearità della condotta investigativa. Meno sereno, ça va sans dire, su quello che il futuro riservasse alle mie viscere per gli effetti dell’assunzione quotidiana di quel caldo veleno mortale. Il dottor G. non aveva bisogno di soldi o forse folgorato sulla via di Damasco s’era affrancato, fra i pochi, dalla schiavitù del denaro, aveva sgranato la maglia con la quale il Capitale a sé avvince, arbitro incontrastato, il destino di tutti, assiso proprio daccanto al Caos, in attesa di spodestarlo con l’ultima operazione di borsa o con la leva del debito dei paesi poveri, compiendo di lì a poco l’estremo regicidio. Il dottor G. non aveva bisogno di più soldi o forse, meglio, non s’aspettava di vedersene arrivare ragionevolmente presto e di più. E non abitava lontano, anzi. Ma il dottor G. continuava a stare tutte le sere in ufficio fino a tardi, come me, si, d’accordo, già detto, detto pure già che però io… Luci accese, un presidio tiepido e sicuro nel cuore del palazzo di giustizia, nell’ora dell’obnubilamento generale, fin nell’ora che fatalmente preluderebbe ad ogni personale e certo irrituale confessione, che introduce se non al sonno della ragione, pur sempre al sonno. Il dottor G.. Lo stimatissimo dottor G. Il benvoluto dottor G.. Il funzionario dell’anno da tanti anni e per tutti gli anni a venire, di certo, si, per tutti gli anni finché non si sarebbe aperta, nel cielo o nel sistema pensionistico pubblico con verosimile coincidenza di date e d’anzianità maturate, una finestra, varcata la quale, corpo ed anima, trasfigurando, il dottor G. non avrebbe acceduto al soglio di una superiore esistenza. Un uomo buono, un uomo serio, un uomo giusto. Giusto un uomo, neanche brutto. Chi mai poteva non considerarlo come collega, non sperare, anzi, di avere a che fare con lui? O magari di potersi giovare del sollievo del riporre in lui una qualche confidenza, o ambire a un qualche suo consiglio, si, certo, professionale, certo, e però forse, massì, anche di più, anche personale? Una certa correntezza col dottor G., una familiarità, quasi, si, oserei, si, non potrebbe che giovarmi, farmi diventare migliore, molti pensavano così, si, migliore, d’altra parte anche il babbo è così che diceva sempre: “Accompagnati quando puoi a quelli migliori di te”. Pensiero da ometti, in un certo senso, ometti piccolo-borghesi, tanto per omaggiare con l’espressione il mondo che fu, di quelli il cui destino corre piuttosto sicuro accomodando la tela dell’esistere già tutta formata dalle decise sforbiciate della tradizione, giorno dopo giorno, senza far modifiche, giorno dopo giorno trasformando imbastitura in impuntura. Nel dottor G. molti avevano riposto fiducia, avevo appreso, diversi si erano rivolti a lui nel momento delle necessità impellenti, o dello sfogo, dello sconforto professionale – così tanto inconsistente, lo sconforto professionale, da essere per ciò stesso uno dei più temibili stati di prostrazione della coscienza, sosterrebbe qualcuno –. Era il dottor G. diventato custode di ogni genere di verità parallela, di quelle che segnano le relazioni tra le persone ben oltre l’ordinata topografia delle scrivanie, e delle gerarchie, e delle anarchie, che delle gerarchie sono la sublimazione, nella burocrazia. Cosa pensava il dottor G.? A proposito di ometti e di donnine, si, certo, avevo considerato anche un’altra possibilità. Quella classica, quella cullata sempre da una copiosa messe di ammiccamenti, e di sorrisi, quella che ogni giorno, negli ambienti piccoli e chiusi specialmente, suole farsi il belletto attingendo a due dita nell’odoroso vasetto del non detto. Una relazione galante? Il dottor G. era un tipo piccolo, basso, e però, senza con ciò dar luogo ad una avversativa, a vederlo avevo sempre pensato, e ora mi accorgevo di non essere il solo ad averla pensata tal quale, avevo sempre pensato che lui avesse – come dire? – potenzialità attrattive. Sarà stata la forma intransigente del nodo delle sue cravatte, cravatte mai sbagliate, o più in generale il suo vestire, o il suo modo di portare gesti, o la sua inclinazione piuttosto disorientante a dire serietà e facezie con il medesimo tono e con la medesima gravità nell’espressione, o magari niente di questo, o questo ed altro, ma attorno a lui, era innegabile, c’era una certa aura di… di… Oh, beh, dalle testimonianze raccolte nel modo in cui ho riferito sopra, tra gli uomini era diffusa l’opinione che il dottor G. non avesse opinioni sugli uomini. E tra le donne? Mi sorpresi a dover registrare tra le mie intervistate, tra le mille difficoltà che la cosa già presenta da sé, rivolgere cioè domande a una donna cercando di ottenerne delle risposte, un sostanziale silenzio. E in questi casi il silenzio non soccorre. Certo, questo è sicuro, il dottor G. non era il genere di persona che si abbandonerebbe a diffusi racconti di caccia, questo pareva chiaro. Pareva chiaro agli altri cercatori e pareva – ma questa, questa si è una sensazione così volatile che qui la riferisco solo per dovere di completezza espositiva –, pareva insomma che ne fosse consapevole anche ogni possibile preda. Consapevole, convinta, rassicurata, ammirata. Uomini d’altri tempi, certo, di quelli che nutrono un rispetto sacro per il gesto, tanto da vietarsi in maniera severa, rigorosa, austera, monacale ed anche omertosa ogni sua postuma rievocazione, confidenza o recita. Dovevo insomma, a meno di successive emergenze, concludere che anche questa strada non potesse portare a niente. E allora? Il dottor G. aveva preso moglie. Questo fu un fatto facile da appurare. Avevo, lo confesso, avevo immotivatamente compulsato il suo fascicolo personale già da giorni e con una certa ingenuità, mi sarei accorto in seguito, appena davanti a una sua istanza firmata, datata, registrata, autorizzata e lì riposta, istanza di congedo straordinario per consecutivi giorni quindici per matrimonio, avevo chiuso il fascicolo pensando “ecco!”. Le mogli, certo, con il loro solo esserci, danno origine a diverse presunzioni iuris tantum, anzi, per dirla tutta, ricordo che frequentai per un certo periodo un avvocato del libero foro – non del mio distretto, ovvio – che si professava radicalmente convinto del fatto che la presenza di una moglie dia origine almeno a una o due presunzioni iuris et de iure. Che ciò, tutto ciò sia vero anche riguardo ai mariti non lo nego ma non importa, non era oggetto adesso neanche di un secondario filone della mia personale indagine. Certo, certo, salvo l’emergere di ipotetiche nuove e diverse evidenze. “Perché, non lo sa?” Non lo so? Non lo sapevo? Quanti film francesi, e americani, e italiani certo, e d’ogni epoca, dai telefoni bianchi alla commedia all’italiana per quel diavolo che voglia dire, e qualcosa anche della nouvelle vague, che si, certo, che però lì tutto ha un suo significato, ma lasciamo stare, quanti plotoni di registi ben ordinati, magari pure qualcuno russo, quanti insomma hanno mostrato a un certo punto con cinica iterazione questo topos, questa occorrenza che adesso toccava anche a me di vivere, ma vivere per davvero, questa manifestazione dell’essere, questa esperienza assoluta di avere di fronte a te un segretaria che a un certo punto ti dica con un indefinibile tono: “Perché, non lo sa?”. No. Non lo sapevo. Non lo sapevo! E ora mi vergognavo immensamente perché più di tutto mi bruciava l’ingenuità da uditore di fresca nomina, che dico, l’ingenuità da sprovveduto impiegato di sesta, che letto un foglio qualunque in una sequenza di fogli, aveva deciso che potesse bastare, aveva chiuso il fascicolo. “Il dottor G., poverino, è vedovo.” Capite? Di lì a altri venti o cento fogli, se solo avessi avuto maggior metodo e un po’ di sale, non avrei mancato di incontrare nel medesimo incartamento istanza firmata, datata, registrata, autorizzata e lì riposta, istanza di congedo straordinario per consecutivi giorni tre per gravi motivi familiari, a cui pietosamente seguiva analogo foglio firmato, datato, registrato, autorizzato e lì riposto, di congedo ordinario per consecutivi giorni otto. Vedovo. Vedovo. Il dottor G. rimaneva fino a tardi in ufficio perché lo spaventava la solitudine? No, nemmeno. Il dottor G. era vedovo da dieci anni. Alla solitudine, si, ad ogni solitudine, anche quella che provavo io stesso in quel momento, fuori dalle rassicuranti direttrici d’ogni ragionamento condivisibile con altri, lungo la solitaria strada di una indagine segreta, privata, incomunicabile, irrilevante ed immotivata ed anche difficile, ostica, straniera e buia, inconsistente ed evanescente, anche a quella solitudine ci si abitua. È un concetto enorme, si, ma si stava facendo un’indagine in fin dei conti e non si stava a filosofare. E dunque non credo, non credetti, che il dottor G., a dieci anni e più dal luttuoso evento, rimanesse ancora fino a tardi in ufficio ogni giorno tutti i giorni perché gli pesasse tornare a casa in una casa vuota. Ci si abitua alla solitudine. Si rimane soli e magari ci si àncora a qualche dettaglio, a una minuzia, a una infinitesima asperità del vivere, financo, come del resto mille volte ho osservato fare alle bollicine di qualsiasi blanc de blancs nella loro flûte, seduto alla controra nel wine bar poco distante dal Palazzo, bollicine che nascono e prima di liberarsi insistono a lungo sulle microscopiche ruvidità del cristallo. Ci si dimentica un poco in una nebulosa di cose, in uno sciame di abitudini che rassicurano, che anestetizzano, che calcificano le emozioni. Cosa, cosa più del lavoro, delle carte, della storia senza storia della prosa dei pubblici uffici frequentati ogni giorno, come una terapia del dolore, come un palliativo tossico ma efficace delle ferite del vivere? Non avevo altro. Non avevo altro che questo: quell’indagine andava archiviata?

Sapete quelle dita malcerte dalle falangi gialline, che a coppie vanno a scatti irregolari, repentinamente e frequentemente cambiando direzione di dove in dove sul tavolo, tra fogli e fascicoli e ostacoli vari e penne e altro alla ricerca del bordo morbido, aperto sfrangiato, familiare e rassicurante del pacchetto delle Diana o delle Multifilter, oggetto dai tanti familiari risvolti tra cartoncino e cellophane, da stagnola a cartoncino, stratigrafie familiari ad ogni polpastrello aduso, che custodisca – si, certo che dev’essercene ancora un paio, che oggi non ho fumato proprio, si può dire – le sigarette e che sempre sparisce quando lo sguardo è volutamente intento altrove? Sapete il senso di incompiutezza, e di vacuità, mentre si tiene intanto assicurata colla consumata perizia del pollice la curva, docile forma dell’accendino già sotto il palmo della medesima mano e non si trovano, e no che non si trovano proprio? Non avevo altre ipotesi da formulare; avevo congetturato, avevo verificato, inutilmente avevo cercato riscontri, e mentre ancora ripassavo i ragionamenti falliti sulle origini del comportamento del dottor G., ero lì che cercavo di raggiungere macchinalmente con la mente un’altra possibile ipotesi che mi illudevo di aver già formulato e poggiato proprio tra le altre. Ma altra ipotesi non c’era, il pacchetto morbido non c’era, un senso di inappagamento, di sospensione screziata da venature d’angoscia, sorda perché in definitiva immotivata, si appropriava di me, faceva di me sua preda, suo territorio. Cosa pensare, allora? Poteva essere quella devozione che qualcun altro avrebbe forse definito da anime belle al cittadino astratto, suo teorico datore di lavoro, a guidare il dottor G., a motivarlo? A fargli rinunciare, per l’astratto, appunto, all’incontro dialettico e concreto con i tanti cittadini in carne e ossa, le tante persone vere, tutti i giorni, tanti giorni, ogni giorno fino a sera? Mi sforzai, mi tormentai anche, mi interrogai ancora e ora che avevo in bella mostra davanti a me tutti quelli che dovevano essere o sembrare gli elementi per comprendere le intime ragioni di quell’uomo – e mi disintossicai, anche, pure, intanto, interrompendo l’assunzione sistematica di caffè e cercando ormai riparo nel contraltare di un tè misterioso dal misterioso odore di fumo – mi interrogai a lungo attingendo con umiltà al mio sentire umano ed alla mia limitata scienza, ora che la strada doveva ritenersi segnata e se solo avessi riconosciuto i simboli e i segni di quel percorso iniziatico non avrei dovuto fare altro ormai per arrivare fino al tabernacolo del “perché”. Ma una verità superiore mi attendeva. Io, io stesso che aspettavo di cogliere la verità, compresi che sempre l’unica verità è la ricerca, l’unica verità è l’attesa. E allora, meno serio, si, meno serio e più dubbioso in volto, perplesso, di più, disorientato, mi trovai da solo davanti alla sconfitta della ragione, rassegnato, ad allargare le braccia come l’uomo vitruviano. Nessuno è davvero attaccato al proprio lavoro. Non lo sono nemmeno io, si. Questa verità inconfessata mi si parò davanti limpida, semplice, tenera direi quasi, come un ricordo d’infanzia, ecco, un pensiero bello e dinamico e solido e libero ed anche unico strumento di libertà come la prima bicicletta posseduta da bambino. Non sono attaccato al mio lavoro. Non lo amo. Mi dà passione, mi dà decoro, nutre il mio io, nutre me, è una chiave per impostare i rapporti con il resto, una qualunque, forse la più nobile perché la più tradizionale. Mi stavo perdendo in questi ragionamenti, stavo pedalando in maniera incerta su questa bicicletta fattasi ormai troppo piccola per le mie gambe, piccola per come ero diventato adulto fuori, piccola ora. E così seppi che fare. Nessuno è davvero attaccato al suo lavoro. Aprii un fascicolo a carico del Dottor G. sulla base del solo fatto considerato che il suo comportamento dovesse indubitabilmente ritenersi contrario all’id quod plerumque accidit.

Anni dopo, all’esito delle indagini, il dottor G. venne incriminato e condannato poi per falso in atti giudiziari. Ogni sera, da solo, ogni sera tutte le sere, meticolosamente, con calma, luce accesa solitaria nel palazzo di giustizia, come alle spalle di una amante dell’Ottocento rimirandone tutt’assieme la capigliatura sciolta, segno di intimità, le gambe nude ed il bustier prezioso, con dita sapienti scioglieva i legacci di uno, di due, di tanti faldoni di altrettanti processi. Le dita scorrevano i fogli, correvano sulle righe. Cambiava destini, somministrava verità alternative alle evidenze processuali, tutte essendo, certo, tutte essendo ugualmente verità parziali se non arbitrarie. Così, per quel che mi riguarda, la realtà come spesso accade aveva segnato la via stretta, per la quale arrivò a darmi ragione e torto, torto e ragione assieme.

Corrado Nove

 

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