Apr 24, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

L’orto degli ideali In evidenza

Pubblicato in Racconti Inediti
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Nessuno aveva mai saputo da dove fosse arrivato, ma quando scaricò i bagagli da una sgangherata Skoda di colore giallo, nella piazzetta principale del paese, in molti si erano accorti che aveva una sola valigia e moltissimi scatoloni di cartone, da uno dei quali, semiaperto, caddero a terra diversi libri. Si era sistemato presso la signora Jolanda Borgese, una anziana signora che arrotondava la pensione affittando una camera per periodi non brevi ad insegnanti, infermieri, persone sole. Era il 1970, forse il 1971. Si chiamava Giorgio Brabante e non aveva certo l’accento calabrese o meridionale. Girava spesso per il borgo, sempre solo, d’inverno con un eskimo e una sciarpa a quadretti bianchi e blu, e anche d’estate indossava camicie con le maniche lunghe e scarpe stringate. In tasca o sotto il braccio un giornale, in bocca la pipa rompeva la coltre di barba che adornava il viso, portava occhiali con vetri spessi dietro i quali non si capiva, a volte, dove volesse andare con lo sguardo. Un personaggio come tanti, in quegli anni, a metà tra l’anarchico e il rivoluzionario bohémien. Ma doveva essere una brava persona, almeno dava questa impressione.

 

Gaetano, Tonino e Raffaele erano all’ultimo anno di Liceo, e come tutti i pomeriggi, dopo aver studiato un po’, si ritrovavano nella villa comunale per fare quattro chiacchiere o discutere di politica, di ragazze o di tutto ciò che attirasse la loro curiosità. Seduti su una panchina discutevano, forse anticipando o richiamando, su Nietzsche e Marx, un cantautore allora agli esordi, Antonello Venditti. Il signor Giorgio era là, immerso apparentemente nei suoi pensieri, seduto a pochi metri da loro guardava l’orizzonte e gli uccelli che in aprile rompevano gioiosamente i silenzi e la staticità del pomeriggio. Si alzò e si avvicinò, con molta educazione nei confronti dei tre studenti, nonostante avesse o dimostrasse almeno sessanta anni. Chiese ai giovani la loro età e la loro condizione, a voce bassa e calma. Rispose Tonino, limitandosi a dire che erano prossimi alla maturità e che stavano già pensando al loro futuro intendendo scegliere la facoltà universitaria alla quale iscriversi, sottolineando la necessità di procrastinare il servizio militare per non interrompere o arrecare nocumento agli studi.

Il signor Giorgio era una persona molto discreta, sino a quel momento in quel borgo, sconosciuto ma chissà perché scelto per viverci o quantomeno soggiornarvi per un po’ di tempo, si era limitato al buongiorno o alla buonasera e a qualche “grazie” solo al giornalaio, al barista e al bottegaio dove comprava qualcosa da mangiare che preparava nella cucina della signora Jolanda. Ma quei ragazzi gli fecero subito simpatia e cominciò a dialogare con loro. Anch’essi furono discreti, non gli chiesero né da dove venisse né cosa facesse nel loro paese. Ma quando lo sentirono parlare rimasero affascinati dal suo modo di esporre con lucidità, chiarezza e imparzialità concetti e principi, su più argomenti. Quel pomeriggio si salutarono con cordialità, Raffaele gli chiese una sigaretta e il signor Giorgio gli mise in mano tre “Gauloises”.

Si rincontrarono qualche giorno dopo. Lo videro con un libro sotto il braccio. Disse che lo portava con sé da un po’ di giorni perché voleva farlo leggere a Tonino quando li avrebbe incontrati. Era una delle prime edizioni di “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, pubblicata nel primo dopoguerra. I ragazzi avevano già capito che si trattava di una persona colta, con molti interessi e con una radicata matrice antifascista. Quel pomeriggio il signor Giorgio (ma ormai lo chiamavano solo Giorgio) parlò a loro della sua famiglia distrutta dai fascisti: era figlio unico e il padre, un sarto, era stato costretto a lavorare prima gratis per i gerarchi e poi deportato in Germania, dove si seppe molto tempo dopo che morì di fame prima ancora che lo ardessero come legna, mentre la madre venne uccisa quando era al sesto mese in attesa che arrivasse un suo fratello o una sorella, senza un apparente motivo, così che si disse che fu colpita per errore.

Si aprì e raccontò degli anni trascorsi con i suoi nonni paterni in Francia, dove era riuscito a scappare da ragazzo grazie all’aiuto di un maresciallo dei Carabinieri di Imperia che in gioventù aveva lavorato da garzone in una bottega vicina alla sartoria del padre. Fu come una liberazione per Giorgio parlare a quei ragazzi. Forse non parlava di questi argomenti da moltissimo tempo, ma quando narrava i fatti sotto i suoi occhi si intravedeva la pelle raggrinzita e uno sguardo verso l’infinito.

I ragazzi si chiesero, ma non glie lo domandarono, quale attività Giorgio avesse svolto in gioventù, se avesse avuto una moglie o comunque una compagna di vita, dei figli. Ma già il racconto intriso di pathos che avevano ascoltato aveva fatto conoscere meglio la persona che avevano incontrato per la prima volta solo pochi giorni prima e li aveva messi di fronte ad una realtà emozionale che solo chi vive certi momenti può capire e non sempre riesce a spiegare già a sé stessa, con maggiore difficoltà, naturalmente, agli altri.

Continuarono a vedersi altre volte, poi i ragazzi dovettero concentrarsi sulla preparazione all’esame di maturità, diradando la consuetudine dei pomeriggi in compagnia. Giorgio, però, usciva sperando di incontrarli. E un pomeriggio li vide passeggiare, tutti e tre, erano inseparabili da quando portavano i calzoni corti. Gaetano lo chiamò, lui ne fu felice. Cominciarono a parlare di ciclismo, del dualismo tra Merckx e Gimondi, poi si finì a parlare di Università e di lotte studentesche.

A quel punto Giorgio riprese a narrare la sua vita. Ma i ragazzi si chiesero il motivo per il quale le lotte studentesche lo “prendevano”, considerata la sua età. Partì da lontano, e raccontò ai ragazzi che aveva studiato, grazie ai sacrifici dei nonni, in Francia fino al diploma, anzi, del “baccalauréat”, termine che suscitò un po’ di ilarità, anche se non aveva l’accento degli italiani che vivono oltralpe, e poi in Italia, a Genova, mentre contestualmente lavorava in un grande stabilimento industriale da operaio. Si era laureato, non senza sacrifici, in chimica e poi aveva fatto carriera nella stessa azienda. Tuttavia, le sue idee politiche, vicine all’estrema sinistra, e gli impegni nel sindacato incrinarono il rapporto di lavoro e con una scusa banale venne licenziato. Era quasi certamente questo il motivo che lo rendeva solidale con le lotte studentesche di quel periodo. Non si era mai sposato, aveva avuto una relazione con un’impiegata dell’azienda, Francesca, che però lo aveva abbandonato dopo la perdita del lavoro. Disse il nome “Francesca” con una voce rotta dall’emozione, evidentemente era una persona alla quale aveva voluto bene, e tanto.

Ecco, ora i tre giovani ne sapevano di più, non avrebbero osato chiedere a Giorgio fatti della sua vita privata, ma lui si era aperto con loro e se ne chiesero il motivo. Non c’era un motivo vero e proprio, Giorgio finalmente parlava con qualcuno e si sfogava. La “banale scusa” doveva essere qualcosa di serio, di grave, forse per pudore non aveva detto l’altra mezza verità, perché le sigle sindacali altrimenti si sarebbero mosse per farlo reintegrare.

Ma alla fine, dalle successive narrazioni, si intuì qual era stato il vero motivo: non aveva voluto cedere, aveva portato avanti le sue idee e le sue contestazioni in un mondo nel quale il dio denaro non avrebbe potuto abbattere i valori delle persone, lo aveva fatto “ad ogni costo”, con coerenza e determinazione. Porta in faccia e via, ecco perché si trovava “in esilio” per sua stessa scelta, a mille chilometri di distanza, in una terra nella quale non era mai stato, in quel sud dal quale provenivano diversi suoi colleghi della fabbrica che vide maltrattati, umiliati, finanche licenziati, in tante occasioni.

Ma stava per andare via, i soldi della liquidazione con i quali viveva stavano terminando e doveva cercarsi un lavoro ancora qualche anno per assicurarsi il diritto alla pensione. E così due giorni dopo fece in modo di incontrare i ragazzi, andò davanti al Liceo all’orario di uscita, incontrò solo Gaetano e Raffaele. Si diedero appuntamento per il primo pomeriggio nella piazza, sotto la casa della signora Jolanda. Sarebbe partito verso le 15, dopo aver lasciato la stanza libera.

Voleva salutarli e regalare loro alcuni tra i suoi libri. Si premurò di incitarli a studiare per la maturità e di scegliere bene gli indirizzi di studio all’Università, lo disse più di una volta, anche fermamente. Gaetano, Tonino e Raffaele furono pervasi da malinconia, quel distacco li colpì molto. E prima di abbracciarli reiterò la sua raccomandazione precisando che non si possono fare scelte legate solo al dio denaro, che nella vita si deve fare ciò per cui si è realmente portati, “ad ogni costo”, così come ad ogni costo i partigiani avevano lottato per contribuire a far nascere un Paese democratico e civile, del quale loro ora potevano beneficiare.

Gaetano, Tonino e Raffaele ricordarono per tanto tempo le parole che disse prima di rimettersi in quella sgangherata Skoda gialla e di metterla in moto: “Coltivate sempre l’orto degli ideali, non ve ne pentirete mai! Verrà il giorno in cui vorranno annientarli immolandoli al dio denaro, ma risorgeranno sempre, come un’araba fenice”.

Tonino si era iscritto alla facoltà di Ingegneria a Torino, Gaetano si iscrisse a Medicina in quel di Pavia, Raffaele scelse di studiare chimica proprio all’Università di Genova. Fu quest’ultimo che un paio di anni dopo, una mattina, aprendo il giornale, lesse un trafiletto: “Ex sindacalista muore in un laboratorio chimico. Sarebbe andato in pensione tra due mesi”. Nel dettaglio, si parlava di tale Giorgio Brabante, di anni 63. Era lui. Non aveva potuto continuare a coltivare il suo orto degli ideali, a due mesi dal raccolto.

Letterio Licordari

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