Apr 24, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

La bellezza del trenino In evidenza

Pubblicato in Racconti Inediti
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“Ci sono ricordi forti che non vengono scalzati dall’accumulo di altri che vengono dopo e che sembrerebbero più degni di avere la preminenza. Per me, nulla ha mai vinto il treno. Mi fuma negli occhi e negli orecchi come un sigaro toscano.”

 

Ho viaggiato a lungo e con costanza durante buona parte del periodo scolastico. Nel paese c’erano solo le elementari. Le scuole medie e le superiori bisognava andarsele a cercare. Taranto era controproducente. Era in pendenza ma non era e non è uno scivolo. Si faceva prima ad arrivare alle Cicladi con l’aiuto di un aquilone che a via D’Aquino. Potenza era abbordabile e succhiabile come una sanagola. Sulla linea Capoluogo di Regione-Metaponto viaggiavano quattro treni scassati e scorbacchiati che facevano pensare a quelli pionieristici dei coloni americani. La loro lentezza era mortale e spesso neppure ce la facevano a giungere a destinazione. Mi è rimasto talmente vivo il ricordo del millepiedi che, con una opportuna dose di fatti e misfatti, l’ho portato avanti in un romanzo conseguendo un certo successo per numero di lettori.

Col “Treno 88-42” ho cominciato una lunga serie di scritti che al treno hanno sempre girato attorno o che al treno si sono rifatti. Una maniera quasi emblematica che ha finito per tradursi in una saga. Ho abbordato i predellini per tutto il tempo delle medie e del ginnasio. I treni dell’epoca (immediato dopoguerra) erano ancora quelli che se la fumavano in senso letterale: locomotiva coi pennacchi, spifferi e zaffate, sedili di legno di terza categoria, finestrini con vetri sporchi, carrozze indecenti, pomiciate o masturbi nei cessi, i controllori di ferro, i capitreno con le coppole rigate di fregi generaleschi. Per colmare la distanza dalla stazione di Trivigno a Potenza Inferiore (ora Centrale) si metteva un’ora. Il binario era unico e spesso bisognava dare la precedenza al “monello” che veniva da Napoli o al “merci” che per inerzia scendeva da Battipaglia e che si nutriva di ossido nella galleria della morte o di Balvano fino a sembrare di taffetà.

Il viaggio è stato qualcosa di ludico e giulivo che mi sono portato. Anche oggi in vecchiaia quando posso (la rarità sta diventando regola) scelgo per i viaggi il treno ai pullman. Nei primi anni di sistemazione, con ruolo ordinario nelle scuole, non mi sono privato di viaggi di conoscenza della Regione e di sperdute campagne. Quando avevo un giorno di libertà o c’era il ponte scolastico, facevo un biglietto e prendevo il primo diretto che mi veniva a tiro (“Con una dolce stretta\\voliam dentro al diretto\\che ci porterà\\ verso la felicità”). A parte le città come Salerno, Napoli e Roma, mi recavo lungo la costiera per godermi le bellezze amalfitane e di Positano (quello con il locale “La Buca di Bacco” piantato nell’acqua coi prezzi poco calmierati). Spesso prendendo il traghetto al porto turistico Masuccio di Salerno che aveva le guide e il monocolo a poppa.

Quando mi sono pensionato (relativamente giovane con meno di sessanta), mi sono costruito una carrozza simile a quella di “Sereno-Variabile” e ci ho messo un ciuccio alle stanghe. Il volpino Spinella completava il quadro. Partivo per giorni addentrandomi nell’interno della Regione che ha posti belli, spettacolari. Anche orridi e segnati da precipizi come quelli attorno alla mitica Aliano (vi trascorse un periodo di esilio Carlo Levi) e agli sgarrupi di Castelmezzano e Pietrapertosa che costituiscono l’Athos monacense della Basilicata. Ho mangiato e dormito in piccole pensioni offrendomi a qualche trasgressione erotica. A Gorgoglione conobbi una vedova che faceva il “completo” oltre al mangiare e al dormire. L’avrei voluta portare con me in carrozza, poi ha vinto il pensiero che avevo un matrimonio collaudato e ho messo da parte tutte le riserve. Quando John Steinbeck (anni sessanta) girava col suo camper Ronzinante e col barboncino nero Charley per tutto il Texas e per tutto il Sud del paese, fornito di fucile e con una scorta di viveri liquori matite fogli taccuino in quasi assoluta sporcizia (lo scrittore si lavava poco come il mitico Che Guevara), io ero un po’ l’alter ego per le strade della Basilicata. Avevo bisogno di conoscenza della geografia del mio feudo per meglio amarlo e per meglio poterlo esaltare negli scritti nei quali mi accingevo.

Ho dormito nottate di neve e di freddo nel carro sotto una manta di lana. Ho contemplato mattinate innevate da un finestrino senza la nottola con gli occhi pieni di cispi. Mi sono fidato per lunghi estenuanti periodi di buio (aspettando i solstizi) di Spinella che dormiva tra le gambe del ciuccio. Un cane amico intelligente che allarmava con la sua voce quando si avvicinava qualcuno. Ho scaricato cartucce da dodici all’aria e ho visto gente (forse malintenzionata) fuggire. Non so se fossi o meno preparato a fare centro benché una volta prendessi una chiappa al volo. L’asino l’ho perduto comunque. Morto schiattato per l’eccessivo cammino e forse per mancanza di alimenti appropriati (solo erbe e ramoscelli e mai un sacchetto di biada). Non ho scritto “In viaggio con Ciccio e con Spinella” e neppure “Uomini e topi” perché non lo saprei fare. Mi mancano i mezzi necessari. Avrei potuto chiederli a Steinbeck se non sapessi che ognuno dev’essere se stesso (dignitosamente se stesso) e lui non se ne fosse andato troppo per tempo o non si fosse perso (rendendosi introvabile) per la sua amata San Francisco.

La trovava ogni volta immobile e fascinosa “come il dipinto di una città medievale italiana” così come io trovavo Matera coi mille buchi del Sasso un paradosso del pittore Hieronymus Bosch o delle Tentazioni (Diluvio, Fieno, Delizie). La Basilicata non è l’America. Neppure i sesquidecimali la possono contenere o riflettere. Essa è ancora meno. Ugualmente nel suo piccolo “più grande e più misteriosa di quanto pensassi” è una terra amica. Nel bene e nel male l’ho succhiata. Da questa soglia, che non mi consente più di viaggiare, la canto e decanto stando con la penna a tavolino.

Angiolo Rubino

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