Ma per lo più non ce ne rendiamo conto e, soprattutto, lo facciamo senza competenza. Il più grande alchimista, mago, incantatore dei nostri tempi è il pubblicitario che, per plagiare il consumatore, adotta un semplice espediente: la ripetizione incessante, martellante del nome del prodotto che vuole vendere. Ce lo fa leggere sui giornali, sullo schermo televisivo, sui manifesti, negli stadi, sulle magliette che la gente indossa. In verità, da qualsiasi parte ci voltiamo ci giunge all'orecchio o ci appare davanti agli occhi l'onnipresente nome. A questo punto, per quanto possa essere valido un prodotto senza nome, non lo prendiamo nemmeno in considerazione.
Non compriamo più oggetti comuni ma unicamente i loro marchi. La stessa cosa vale per i disegni e i dipinti: la tecnica di vendita del mercante d'arte è esattamente la stessa del venditore di un qualsiasi bene voluttuario. Un'opera firmata da un artista famoso è un oggetto incantato e quell'incantesimo, di cui non è necessariamente responsabile l'autore, moltiplica il suo valore sul mercato. Molti lettori si staranno chiedendo se un quadro senza firma possa avere un valore. La mancanza della firma rende spesso le procedure di riconoscimento dell’opera un po’ più lunghe e difficoltose, ma anche un quadro senza firma può avere un grande valore anche se, tempo fa circolava un aneddoto su un buontempone che vide da un noto antiquario di Parigi un dipinto firmato e ne domandò il prezzo. «Mille franchi», rispose l'antiquario. «E senza la cornice e la firma?» domandò lui. «Oh, in tal caso», disse l'antiquario che era a sua volta spiritoso, «può averlo per tre franchi e cinquanta». Nel Cinquecento, nel Seicento e nel Settecento firme e sigle non erano diffusissime. Anzi erano una rarità. Solo una piccola parte dei dipinti del Rinascimento ci è giunta firmata dai loro artisti. In alcuni casi, questo succede perché furono smembrati delle loro cornici, sulle quali gli ebanisti avevano inciso il nome dell'autore, ma in molti altri questo capita perché firmare non era ancora un'usanza diffusa .Nell’Ottocento e nel Novecento la pratica di dare una paternità all’opera si diffonde, ma generalmente i pittori apponevano la propria firma ad opera finita, pronta per essere immessa sul mercato o per partecipare a una mostra. In questi anni, ad esempio, l’artista non sentiva l’esigenza di firmare lavori che restavano nella propria casa e apponeva la firma dopo tempo, quando un collezionista, ad esempio si era recato nel suo atelier, aveva compiuto un acquisto e attendeva di andarsene con il dipinto. Con la morte dell’autore e la dispersione delle opere e la scomparsa progressiva dei diretti testimoni, i dipinti restano anonimi. Ma non per sempre. Lo stile, le modalità di pittura, i canoni seguiti dall’autore restano e ci offrono la possibilità di stabilirne, specie, se è un grande artista, la paternità del dipinto. La critica d’arte e i conoscitori procedono pertanto attraverso processi di ricerca attributiva, che passano attraverso elementi di tipo stilistico, individuazione modalità di stesura e di ogni particolare modalità esecutiva di un dato pittore. Nel caso di un quadro non firmato, non dobbiamo pertanto pensare che esso non abbia valore. Deve essere guardato da un esperto in grado di indirizzare il proprietario in un precorso attributivo. Se un’opera abbia lo stesso valore indipendentemente dal fatto che se ne conosca o meno l’autore lo spiega Arthur Danto nella sua “trasfigurazione del banale” dove ipotizzò una mostra di quadri Tutti uguali e identici, delle stesse dimensioni e dipinti unicamente del medesimo colore: rosso. Una mostra all’apparenza monotona, ma solo per chi non è capace di andare oltre ciò che un unico senso può rimandare, quello che qualcun altro gli racconta o gli fa credere. A leggerne i titoli, infatti, ogni quadrato, identico e rosso, assume significati variopinti, molto più di quell’unico apparente colore. Quello che Danto intende è che la differenza, qualsiasi cosa uno creda di vedere o leggere, la fa il significato, quello che dovremmo imparare a dare alle cose e non la firma. La verità non esiste perché ognuno ha la propria da raccontare assieme ai propri dubbi e ai propri percorsi. Oggi purtroppo l’artista viene giudicato come un imprenditore che detiene un marchio, un brand. Dovremmo, a questo punto, parlare di brevetti? L’arte è diventata un gioco per coloro devoti unicamente al mercato o ancora è l’espressione di un pensiero originale? In fondo, il diritto d’autore nacque nel 1710 con lo Statuto di Anna, e non era solo “questione di soldi”: fu promulgato, in primo luogo, per incoraggiare la creatività e l’istruzione. Di certo siamo di fronte a un rovesciamento dei concetti di produzione e consumo: ciò che per alcuni è prodotto, per altri è materia prima. E pensare che gli artisti di un tempo si consideravano anonimi artigiani; soltanto quando iniziarono a vedere se stessi come individui dotati di un talento inimitabile pensarono di farsi pubblicità con una firma ma, se avessero riflettuto meglio, forse avrebbero concluso che un lavoro veramente inimitabile non ha bisogno di firma in quanto si firma da solo.
Serena Gervasio