Mar 29, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

L’opera d’arte è elemento vivo nella società In evidenza

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Propaganda e arte. Quale sia il rapporto che regola i due elementi e che domina la società, anche contemporanea, è un argomento che ha attirato sin da subito la nostra curiosità investigativa. E così, per comprendere meglio le dinamiche sottese all’arte e al suo valore comunicativo, nonché al ruolo “civile” dell’artista, ho chiesto aiuto a Donato Faruolo, esperto di comunicazione culturale, Docente presso l’Accademia di Belle Arti Foggia e Curatore presso Porta Coeli Foundation.

L’arte è il più potente strumento di propaganda, prima ancora della scrittura. Il suo percorso di ricerca l’ha portato verso la definizione del concetto di immagine che contiene un’urgenza che è innanzitutto culturale. Qual è la sua genesi?

 

Ci sono forse elementi personali, altri congiunturali, altri generazionali, a dare consistenza a quest’idea dell’immagine come un ganglio di coscienza negata, che per questo è straordinariamente rivelatore di ciò che escludiamo dalle nostre rappresentazioni collettive. Un po’ come le oscillazioni tra dicotomie culturali che caratterizzano società ed epoche (apollineo/dionisiaco, apocalittici/integrati...) anche per l’immagine si può dire ci siano due “poli” confliggenti e complementari: quello dell’immagine come rivelazione e quello dell’immagine come menzogna.

Vilém Flusser, in altri termini, parla di epoche che danno credito all’immagine (gli idoli, per esempio) ed epoche che danno credito ai testi (la Bibbia, il Manifesto di Karl Marx...). La nostra epoca “tecnica” sarebbe un’epoca di discredito, di scetticismo verso le immagini: a dare una forma al tempo sarebbero invece i testi scientifici, i testi della programmazione informatica, quelli delle tassonomie di dati. La mostra Blind sensorium di Armin Linke, transitata in Basilicata per Matera 2019, parlava esplicitamente di “immagini cieche”, cioè di un’epoca così complessa da essere illeggibile nella sintesi del visivo: pensiamo alla finanza, alle guerre giocate sul piano dell’informatica, della chimica o della biologia, alla complessità dei fenomeni illustrati dai big data, all’illeggibilità dei macro-problemi ecologici in una dimensione ristretta nel tempo e nello spazio...

Queste intuizioni trovano poi la sponda di una certa filosofia francese che sviluppa una teologia negativa dell’immagine: penso a Jean-Jacques Wunenburger, a Régis Debray, a Jean Baudrillard o a Jean-Paul Sartre, tutti impegnati a vario titolo a costruire la concezione di un’immagine che veicola sensi, se mai, in modo imprevedibilmente indiretto se non paradossale, lì dove l’immagine, ribadendo una presenza, non fa altro che reagire al panico di una scomparsa, o di un’assenza, o di una negazione.

In un contesto storico come questo le immagini appaiono consolanti perché offrono l’illusione di poter abbracciare con uno sguardo qualcosa di altrimenti spaventosamente complesso e imprevedibile, confondendo visione ed evidenza. Ma sappiamo tutti di vivere in tempi inquieti. Il presentimento di ciò che è al di là è spesso vissuto con atteggiamento di esclusione per qualcosa che ci condurrebbe al panico, un atteggiamento di rimozione per qualcosa che sappiamo essere insostenibile, che sappiamo essere al di là delle nostre possibilità di governo.

A partire dalla simbologia cristiana, passando per la Rosie di J. Howard Miller del ’42, per finire all’uso quotidiano delle immagini, gli artisti sono i più grandi testimoni del proprio tempo. Possono manipolare ma possono anche essere manipolati, sono artefici e vittime della narrazione ufficiale. In cosa consiste la loro libertà?

Per la cultura cristiana l’iconoclastia è un fatto inconcepibile: il Nuovo testamento archivia il Verbo creatore e parla di una rivelazione che passa attraverso un Dio che si è fatto visibile attraverso la carne, che ha lasciato di sé qualcosa di più profondo di una traccia nella “Veronica” (la vera ikon) impressa sul mandylion senza intercessione di arbìtrio umano (la cosiddetta immagine acheropita), che ha elaborato un santo, San Luca, a garanzia della “veridicità” dell’icona della Vergine, modello di ogni sua legittima raffigurazione. L’iconoclastia è in realtà un fenomeno straordinariamente interessante, che riconosce all’immagine enormi valori, poteri, capacità di influenza. Per questo ritiene che l’immagine vada maneggiata con riguardo, e che non tutto possa transitare attraverso l’illusoria facoltà del visibile. È oltretutto proprio il fenomeno iconoclasta del VII-VIII secolo nell’Impero Romano d’Oriente che ha permesso al Cristianesimo di affinare le ragioni e le modalità della rappresentazione del divino, poi sfociate nello straordinario fenomeno della cosiddetta iconografia bizantina.

Se dovessimo parlare di una sorta di “responsabilità civile” dell’artista, sarei portato a disgiungere ancora una volta i piani: intanto, il fatto che l’arte possa veicolare messaggi, che possa avere un valore comunicativo, non fa dell’arte uno strumento o un linguaggio o un metodo di comunicazione. Prima che rispondere alla società o alle contingenze della cronaca l’artista risponde a un mondo di regole, di divieti, di ostruzioni e di pulsioni... che è tutto interno, per quanto non indipendente dal mondo. Qualcuno dice che se gli alieni fossero in un raggio congruo e avessero la tecnologia per sviluppare dischi volanti, allora non si capisce perché non debbano avere la tecnologia per comunicare, cosa che sarebbe decisamente più semplice e meno pericolosa che farsi avvistare nei nostri cieli. Ecco, dato che l’arte mette sempre in questione i propri metodi, i propri codici, i propri linguaggi in modo strutturale e organico, dato che l’arte, se dobbiamo giudicare da un’euristica dedotta da ciò che è accaduto nella storia, è spessissimo fuori tempo e fuori dalla percettibilità comune, allora viene il dubbio che non sia lo strumento adatto per recapitare messaggi.

Ciò non vuol dire che gli artisti non si prestino alla propaganda, né che la propaganda non si serva degli strumenti dell’arte: intendo solo dire che al di là del messaggio è molto probabile che l’arte, se c’è, sia sempre altrove. L’elemento propagandistico è sempre qualcosa di contingente. Per spirito di paradosso direi quasi di accidentale. Se un’opera d’arte è riconosciuta come tale da una società che le riserva un posto nei propri immaginari, con ogni probabilità non è per i suoi “contenuti”, per il suo “messaggio”. L’artista, in pratica, non è chi esibisce la propria libertà nella disobbedienza – qualcosa che di per sé assorbirebbe ogni possibilità di articolare altri sensi – ma chi è in grado di tradire la committenza. Non mi spiegherei altrimenti la sintonia che sento di poter stabilire con Mario Sironi, Marcello Piacentini, o Arturo Martini anche nelle loro opere maggiormente celebrative di qualcosa che mi repelle come il Fascismo, o di Arno Breker per la Germania nazista, o di Aleksandr Deyneka per il Comunismo sovietico. Né dobbiamo dimenticare come il Perseo di Benvenuto Cellini o il Ratto delle Sabine di Giambologna, che oggi ammiriamo senza farci adombrare da sgradevoli sentimenti, siano essi stessi commissionati come messaggi spaventosamente violenti e oppressivi da parte di un potere prevaricatore e spietato. Né possiamo negare come uno dei poteri più conformativi dei nostri tempi sia quello del denaro, che determina senza dubbio la forma della maggior parte delle opere contemporanee che ammiriamo senza che per questo per noi rappresentino solo il denaro, benché molti scelgano pretestuosamente di dire di vederci solo quello.

Proprio Rosie the Riveter, il manifesto americano per propagandare la guerra, diventa “il manifesto” dell’indipendenza femminile e della lotta per i diritti delle donne. E come lo street artist Banksy le cui opere sono ormai icone della comunicazione del nostro tempo. Cos’è accaduto?

Succede perché l’opera d’arte non è mai un oggetto da contemplazione, ma un elemento vivo che interagisce con un contesto sociale, economico, cultuale; e diventa supporto – non pretestuoso, certo, ma spesso frainteso – delle proiezioni di cui quella società ha bisogno. La storia è zeppa di fraintesi e cantonate incredibili, o di intenzionali capovolgimenti che hanno spostato vertiginosamente il significato di un’opera senza che questo per noi configuri un delitto ai danni della storiografia o delle intenzioni dell’artista. Si pensi al “disastro” epistemologico che compirono Winckelmann o Le Corbusier quando ci convinsero che la classicità greca e, rispettivamente, le cattedrali gotiche francesi fossero bianche... Le immagini hanno vita propria, e i loro autori o i loro committenti non possono farci nulla.

Quando ho la necessità di spiegare perché le opere d’arte si nutrano di narrazioni, faccio spesso un esempio: se dicessi ai visitatori di una mostra che l’orologio che porto al polso è stato acquistato dieci minuti fa nel negozio all’angolo, probabilmente nessuno troverebbe utile quell’informazione e interessante quell’oggetto; se lo stesso identico orologio divenisse nella mia “didascalia” il regalo di un nonno che lo aveva portato in trincea durante la seconda guerra mondiale, quello stesso identico oggetto, quella stessa identica configurazione formale, si caricherebbe di energie che altrimenti non avrebbe avuto. L’opera è l’oggetto? La sua narrazione? O il valore collettivo, reciprocamente negoziato e condiviso, che quell’oggetto riveste per un gruppo sociale che attraverso di esso (sia un evento, un’azione, un suono...) condivide una storia, il senso dello stare insieme?

Qualche anno fa Massimiliano Gioni curò una mostra per la Biennale di Venezia, chiamata Il palazzo enciclopedico, in cui in mezzo alle opere d’arte propriamente dette c’erano oggetti d’uso che avevano acquisito connotazioni artistiche per il tipo di valori che la nostra comunità culturale vi aveva riversato. La curatrice Maria Rosa Sossai, invece, mette spesso in scena operazioni espositive in cui i linguaggi della museografia e la disposizione cognitiva all’immagine artistica vengono utilizzate per dare pregnanza alle storie collettive e partecipative: al Museo civico di Castelbuono, ospitato in un castello rilevato per la comune fruizione da una colletta civica un secolo fa, espone 200 oggetti comuni presi in prestito tra le memorie e le meraviglie frugali delle famiglie castelbuonesi.

Questi sono solo casi eccellenti, estremi, che servono a spiegare come la trasfigurazione e il frainteso a opera di una negoziazione collettiva dei sensi siano un elemento vitale, strutturale dell’immagine. Quanto alla sua deriva nell’ambito della comunicazione, posso sollevare il caso di Comedian, di Maurizio Cattelan: nel 2019 l’artista affigge una banana con del nastro adesivo alle pareti di uno stand di Art Basel a Miami, opera che sarebbe stata al centro di una serie di eventi. Ovviamente non ci siamo fatti scappare l’occasione di indignarci per quest’affronto alle nostre facoltà cognitive, prese d’assalto da un’immagine vuota che per alcuni è apparsa insultante o vacuamente provocatoria. Siamo in realtà di fronte a un’immagine straordinariamente e programmaticamente vuota, cioè a un’immagine che non è certo vuota per difetto. Il fatto quindi che l’additiamo come “sbagliata” in quanto vuota non fa che renderci banali esecutori di un programma: l’opera scompare in quanto manufatto, ma è a maggior ragione presente quale fatto condiviso degli immaginari, dato che percorre le conversazioni di mezzo mondo per settimane. Cattelan è riuscito, insomma, a tirare il meme nel discorso artistico in un’operazione linguistica di deflagrante – e subdola – efficacia.

Le immagini raccontano molto di più di un testo scritto, lo sappiamo. Il ruolo, ad esempio, della fotografia rappresenta oggi il mezzo comunicativo più rapido e efficace, soprattutto nell’era social. Ma quando smette di essere advertising e quando comincia ad essere arte?

Anche in questo caso credo che, se l’immagine è un fenomeno che accade una volta per tutte, la significazione artistica sia invece un fatto processuale, qualcosa che scaturisca dalla conversazione di una comunità cultuale.

All’inizio del suo percorso la fotografia provava a sfociare nel pittorialismo (temi mitici e letterari, fondali “artistici”, attori in posa, costumi, fotomontaggi...) per sfuggire all’accusa di essere un mezzo troppo influenzato dall’automatismo del mezzo tecnico per praticare i linguaggi dell’arte. Si vedano le invettive di Baudelaire, che voleva relegarla agli archivi e alle indagini scientifiche e tuonava contro la perdita del fattore umano. Curioso che oggi in pochi si ricordino gli sforzi del pittorialista vittoriano Oscar Gustave Rejlander, che costruiva enormi palinsesti a tema mitologico tramite fotomontaggi, ma universalmente si conferisca valore artistico alle tavole botaniche di Karl Blossfeldt o alle indagini sul movimento di Eadweard Muybridge, che certo erano del tutto fuori dal discorso sull’arte per aderire a quello scientifico.

Insomma, la “finzione” che sembra fondamentale per il discorso artistico ha ben poco a che fare con la costruzione della scena. Si pensi a quanto si sia dibattuto sulla veridicità o meno del celebre scatto di Robert Capa del suo miliziano spagnolo colto nel momento esatto in cui viene colpito da una pallottola, o alle polemiche che colgono spesso i vincitori del Word Press Photo. Nel 2007, per esempio, Spencer Platt vince con una fotografia che sembra raffigurare agiati turisti nel loro macabro tour tra le rovine di una Beirut bombardata – erano in realtà cittadini in fuga essi stessi. Come è evidente, anche la fotografia non sfugge affatto alla dicotomia tra visione ed evidenza, tra rivelazione e mistificazione.

Nel secondo Novecento l’automatismo della fotografia è diventato invece un elemento fondamentale per la presa di coscienza di quanto sia importante la dimensione processuale dell’arte: Franco Vaccari nel 1972 occupa un padiglione della Biennale con una sola macchinetta photomatic, chiedendo agli avventori di lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Verità e finzione, disvelamento e occultamento diventano di botto categorie assolutamente obsolete. A nessuno importano più le qualità compositive, contemplative, un generico concetto di bellezza, di creatività, di espressione.

Anche per la pubblicità sarei tentato di dire che il punto di discrimine con l’arte stia nella funzione persuasiva che la prima sposerebbe come propria causa primaria e l’arte trascenderebbe. Ma non è così, e le ambiguità delle categorie tirate in ballo fino a ora lo rendono evidente. Mi tocca citare di nuovo Maurizio Cattelan, con buona pace dei suoi detrattori – quelli sì, spesso automatizzati: nel 2015 produce una campagna pubblicitaria per Rimini in cui tira fuori una valanga di stereotipi che fluttuano tra Martin Parr e l’estetica del fast food americano anni ’50, insieme a quella crassa, volgare, suicida immagine della città votata al consumo di esperienze turistiche estive fugaci e ormonali. Tende di salsicce, cheerleader che si rotolano nelle patatine fritte, automobili coperte di lattine di birra. Una rappresentazione così sgradevole e sopra le righe che non può che essere allo stesso tempo efficace per una serie di sensi e di aspettative rovesciate, un’operazione di stampo evidentemente metalinguistico che non può che rivelarci qualcosa del tempo in cui il turismo è solo ricerca di conferme per esperienze già prefigurate su Instagram.

Così come per ogni altra immagine che non sarà mai immune da intenti persuasivi o ideologici, anche la pubblicità nel suo potenziale metalinguistico e processuale è in grado di dire qualcosa a proposito dei tempi e degli uomini. Raramente però le qualità artistiche sono le qualità direttamente coinvolte nella funzione persuasiva: direi che quando i due aspetti coincidono, quando cioè il potenziale artistico non sfugge a quella dinamica, c’è poco di interessante da scovare. Il caso di Banksy, in direzione contraria, mi sembra confermare la tesi: messaggi straordinariamente diretti, che non necessitano mai di grossi sottotesti, fatti per essere efficaci e prêt-à-porter e per rassicurare le facoltà cognitive degli utenti, per dare loro pacche sulle spalle compiacendosi di parteggiare sempre per la causa giusta... Una dinamica decisamente troppo lineare e angusta per produrre rivelazioni: quelle sì, sono reali immagini da consumare.

Ha curato per la Galleria Porta Coeli Foundation una bellissima mostra, tra tante, dedicata al compianto scultore Donato Linzalata nel castello Monteserico di Genzano di Lucania. Qual è il suo messaggio?

Da quando collaboro come direttore artistico per Porta Cœli Foundation, ho provato a mettere in chiaro le carte con il pubblico con l’esplicitazione programmatica di una piattaforma curatoriale che sfuggisse all’idea dell’evento, e provasse a mettere in fila le diverse azioni in una linea strategica per cui, a un certo punto, sia possibile fare un bilancio, una verifica: nella nostra regione che quasi mai si avvale di comitati scientifici o di direzioni artistiche, mi sembrava un atto obbligato, un atto di responsabilità. In realtà non dovuta né richiesta, visto il silenzio che rileviamo intorno alla conduzione elusiva e irrilevante di molti spazi espositivi pubblici, che screditano il ruolo delle istituzioni nella gestione di questa porzione di indubbio interesse collettivo.

Così è nato 404. Programma per l’arte contemporanea, che prendeva in prestito il classico codice della “pagina non trovata” sul web per parlare di come il fenomeno artistico in Basilicata, per tragica assenza di cura e presidio, resti sostanzialmente celato al di là di un collegamento interrotto: non sappiamo e non ci interessiamo di ciò che fanno gli artisti sul territorio, e gli stessi artisti lucani fuori regione non hanno interlocutori per mostrare il proprio lavoro in prossimità delle proprie comunità di origine, espellendo una porzione fondamentale dell’elaborazione culturale dalla sua fruibilità. Semplicemente un suicidio culturale.

Quella su Donato Linzalata era la quarta tappa del programma, e poneva già un’anomalia nel format, non parlando di produzioni recentissime del presente avanzato, ma di un maestro storicizzato. Era tuttavia necessario inserirla in 404, al di là della celebrazione dopo la sua scomparsa, per due motivi: uno, il suo è un linguaggio straordinariamente a fuoco con una serie di urgenze dei tempi, quindi delinea un’esperienza artistica assolutamente di primo piano, emancipata da ogni provincialismo, portata avanti con caparbietà e prometeismo francamente sbalorditivi, anche contro la sonnacchiosità e talvolta l’indifferenza più o meno colpevole del pubblico; due, alla rassegna di un corpus notevole di sue opere scultoree, spesso inedite, abbiamo affiancato quelle pittoriche dei suoi compagni di viaggio che abbiamo definito “i pittori del mito”, provando a delineare le urgenze di una comunità culturale che evidentemente non si muoveva solo per spirito di individualità, ma era strutturata intorno a tutta una serie di dispositivi di cui la mia generazione non ha più modo di fruire. Gallerie, riviste, associazioni, committenze pubbliche ed ecclesiastiche, collezionismo... per non parlare della già citata assenza di presidio dei fenomeni da parte delle istituzioni, che non hanno predisposto nessuno strumento per indicizzare, catalogare, acquisire, promuovere l’arte sul territorio, perdendo appuntamenti capitali anche nei confronti delle regioni vicine.

La Campania ha uno dei migliori musei regionali d’arte contemporanea, il Madre, e una delle più antiche accademie italiane, a Napoli, oltre che un tessuto di gallerie private di prim’ordine e programmi d’arte pubblica come quello delle stazioni della metro eccellenti; la Puglia ha tre accademie (tra cui quella di Foggia, in cui da poco sono titolare), e una serie di presidi e di azioni promosse nel contemporaneo (musei, centri di produzione, festival...) che galoppano a velocità ormai inarrivabili; la Calabria ha due accademie pubbliche, un museo d’arte contemporanea regionale, committenza contemporanea per musei nazionali come l’Archeologico di Reggio Calabria e Palazzo Arnone a Cosenza, e in passato ha promosso articolati programmi di residenza e produzione. In Basilicata, semplicemente, nulla, se non l’azione di alcuni privati che posso contare sulle dita di una mano, spesso osteggiati dal pubblico e talvolta perfino danneggiati, messi a tacere o posti in condizione di minorità da un processo come quello di Matera 2019 che avrebbe dovuto invece aiutarli a lanciare internazionalmente voci e questioni lucane. E Donato Linzalata non può che costituire un monito riguardo a una stagione che sta tramontando nell’indifferenza e nell’irresponsabilità di chi dovrebbe tesaurizzare questo patrimonio prima che sparisca dall’orizzonte della storia tra rivoli di disinteresse.

A quale progetto sta lavorando?

Al di là del lavoro in Accademia di belle arti e della mia attività professionale nella comunicazione per i beni culturali (festival di cinema e teatro, mostre d’arte...), con Porta Cœli Foundation abbiamo da poco chiuso un progetto per la generazione di nuovo patrimonio culturale ad Armento e San Chirico Raparo, intorno alle figure di San Luca di Demenna e San Vitale da Castonovo – che sono sepolti ad Armento e che hanno dato vita alla millenaria Abbazia di San’Angelo al Monte Raparo – e al loro straordinario valore civico, sostanzialmente uscito fuori dalla narrabilità pubblica. Sulla scorta di quanto dice Verlaine («Bisogna che i monumenti cantino») abbiamo rimpolpato di esperienze estetiche i due paesi con una serie di concerti e azioni d’arte performativa tagliate appositamente sui luoghi (in collaborazione con l’Orchestra sinfonica e da camera della Basilicata e con Città delle 100 scale festival); abbiamo promosso il restauro degli affreschi nella citata Abbazia, gravemente degradati; abbiamo aperto una piccola galleria civica ad Armento con una collezione permanente di straordinarie icone bizantine di scuola cretese; e infine abbiamo commissionato all’artista Igor Scalisi Palminteri due nuove iconografie pubbliche sui santi, dopo cinquecento anni dal meraviglioso polittico custodito nella chiesa di San Luca ad Armento.

In questo momento stiamo invece progettando la terza edizione del Mediterranean art prize, che ha cadenza biennale e che come sempre speriamo di poter ambientare in un luogo di rilievo dell’ambito federiciano (prima edizione a Castel Lagopesole, seconda a Monteserico), convogliando decine di artisti internazionali in luoghi che solitamente ci appaiono ai “margini” della vita e della percettibilità pubblica, pur avendo volto in epoche passate ruoli cruciali per la storia.

Eva Bonitatibus

Eva Bonitatibus

Giornalista pubblicista

I libri sono la mia perdizione. Amo ascoltare le storie e amo scriverle. Ma il mio sguardo curioso si rivolge ovunque, purché attinga bellezza e raffinatezza.

La musica è il mio alveo, l’arte la mia prospettiva, la danza il mio riferimento. Inguaribile sognatrice, penso ancora che arriverà un domani…

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