Mino Lanzieri, chitarrista e compositore, classe 1982, inizi da autodidatta e poi una già lunga esperienza di studi e di concerti con musicisti di prim’ordine in Italia, negli Stati Uniti e altrove, ha presentato il suo nuovo lavoro, Endless, inciso di recente con Reuben Rogers, appunto, al contrabbasso e Gene Jackson alla batteria. Gli appassionati di questo tipo di musica non avranno bisogno di apprendere da queste poche righe di cronaca di che tipo di musicisti si stia parlando. La formazione esibitasi a Potenza vedeva invece impegnato, assieme a Lanzieri e Rogers, il batterista Luigi Del Prete, del quale pure già ci occupammo su queste stesse colonne, perché più o meno un anno fa si era già esibito, qui in città, in trio con Giovanni D’Amato alla tromba ed Antonio “Caps” Capasso all’organo Hammond. Ancora meno appare necessario dire su Reuben Rogers, che lo stesso Lanzieri ha introdotto al pubblico attento, all’inizio di serata, come uno dei più apprezzati contrabbassisti della scena jazz contemporanea mondiale. A me, per esempio, è bastato certo sapere che Mr. Rogers suoni tra gli altri con Wynton Marsalis. Il lavoro di Lanzieri è risultato da subito molto interessante. La sua chitarra a tratti dialogante, a tratti frammentaria in frasi che apparivano riflessivamente sospese, non ha cessato, per tutta la serata, d’essere morbida, puntuale, franca, ispirata. Risulterei ridicolo se solo tentassi di aggettivare la musicalità e l’estro artistico di Reuben Rogers, il quale dimostra tutte le complesse, e talune insospettabili, capacità espressive di uno strumento che non è fatto soltanto per scandagliare, come un sonar, con le note basse i fondali del jazz più canonico, ma che si rivela un legno che fende l’onda anche delle più veloci, spumanti correnti di superficie. La mia annotazione s’appunta allora volentieri sul giovane batterista, giovane ma già artisticamente grande, come già dissi, che ha saputo legare compiutamente, con le pelli e con i piatti, in un moto incessante, i percorsi disegnati dalle corde. Del Prete molto ispirato, visivamente contento, tenendo la bacchetta come un pestello da cocktail e turbinando senza posa tra tom e timpano, come spruzzi freschi, sollevava gli armonici alti dei piatti fino a terminare frasi brillanti sulle tonalità molto dry dell’inconfondibile ride Zildjian Costantinople, così rimestando note di rum della migliore melassa di Demerara invecchiato e aromi di menta fresca. Un trio chitarra, basso e batteria non è, a mio modo di vedere, per tutte le orecchie. Qualcuno potrebbe soffrire la mancanza di un legante melodico ritmico come un piano, qualcuno potrebbe sentire, a tratti, il desiderio di estremismi timbrici come quelli di cui sono capaci un fiato o un ottone. Fatto sta che durante la serata, conclusa in un clima caldo ed amichevole dopo ben due bis, il pubblico è stato presente, silenzioso, partecipe, come annotato dallo stesso Lanzieri, assicurando quell’ambito protetto entro il quale si può incubare il più provvisorio e sottile suono. Che cos’è un jazz club?
Rocco Infantino