Apr 25, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

La marcia su Roma, il saggio di Giuseppina Mellace In evidenza

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Denso ma scorrevole, il libro di Giuseppina Mellace “La marcia su Roma - uno degli eventi più tragici e importanti della storia italiana” rappresenta in modo autentico anni cruciali vissuti dal popolo italiano e non solo. L'autrice parte da una prospettiva eurocentrica, inquadrando la Prima guerra mondiale ei suoi esiti. L'Italia, alla fine della Grande Guerra, seduta ai tavoli di pace assieme alle altre potenze europee, sperava di vedersi assicurati quei territori previsti dal patto di Londra del 1915, portando finalmente a compimento il processo risorgimentale tanto agognato.

Il nostro Paese giocò su due fronti contrapposti nello scacchiere delle alleanze: già nel 1882 aveva stipulato un patto militare assieme a Germania e Austria-Ungheria, ovvero la Triplice Alleanza. L'altro fronte fu, invece, il patto di Londra firmato il 26 aprile 1915 con la Triplice Intesa (Francia, Regno Unito e Russia). Questo duplice schieramento di alleanze, a mio parere, mostra come la classe dirigente italiana dell'epoca fosse impreparata dal punto di vista politico e diplomatico rispetto agli altri Stati Europei e nei confronti della guerra che stava incombendo sulle loro teste.

 

Già a partire dal 1911-1912 la classe dirigente liberale campeggiata da Giovanni Giolitti cominciò a mostrare discrepanze nel consenso costruito in Parlamento, al cui interno erano rappresentate solo le élite e nella fiducia del popolo italiano. Infatti, la guerra di Libia pesò gravemente sulle finanze dello Stato e sui soldati stessi, i quali era stati invogliati a combattere tramite diverse promesse: l'acquisizione delle terre a guerra conclusa, il diritto di voto e quindi l'allargamento del suffragio universale maschile . L'elettorato attivo in Italia, prima della legge elettorale del 1912, rappresentava solo il 7% della popolazione, sulla base ancora del censo.

Il tema su cui vorrei soffermarmi maggiormente è il passaggio storico che va dall'età liberale al ventennio fascista.

Come si arrivò al fascismo? L’autrice si chiede se quel 28 ottobre 1922, il giorno della marcia su Roma, poteva essere evitato. Forse sì o forse no, ma ciò che sappiamo è che il fascismo non fu un processo che avvenne automaticamente e che nel giro di pochi giorni stravolse l’intero sistema politico, sociale, economico. Fu, a mio avviso, un processo graduale e di calcolo politico che scaturì dalla figura centrale di un giovane Mussolini, il quale aveva partecipato alla Grande Guerra e aveva fatto presa fin dall’inizio sui giovani, sui reduci e sugli ex combattenti. In quel preciso periodo storico, Mussolini ebbe modo di ascendere nella vita politica italiana perché era in grado di dare credibilità in alternativa alla classe dirigente liberale, che ormai aveva perso consenso. Questa credibilità man mano verrà sempre meno, in quanto il futuro Duce cambierà spesso orientamenti politici e ideologici nel corso del ventennio, ma sicuramente incarnò gli ideali di una nuova società incentrata sui giovani, per questo spesso si parla di “giovanilismo”. Per quanto riguarda gli eventi che portarono alla marcia su Roma, quella del 28 ottobre 1922 non fu una manifestazione rivoluzionaria. Mussolini creò un allarmismo generale trattando con tutte le posizioni in campo. L’autrice ci fornisce in modo dettagliato le varie negoziazioni di Mussolini negli anni precedenti la marcia. Analizziamo, in prima istanza, il 1920, ovvero l’anno degli scioperi, come è denominato dall’autrice. Fu un anno importante anche perché si svolsero le prime elezioni amministrative dopo la conclusione della Prima guerra mondiale, che videro prevalere i socialisti nella maggior parte dei comuni.

Questo 1920, in Italia, fu l'anno degli scioperi, con più di duemila manifestazioni e una partecipazione che superò i due milioni di lavoratori, altissima per quei tempi. Le zone maggiormente coinvolte furono, come al solito, le città del Nord, dove erano collocate la maggior parte delle fabbriche e delle attività economiche italiane. [1]

Dopo la vittoria dei socialisti alle elezioni, si manifestò tutta la violenza fascista. L'autrice richiama l'episodio del 21 novembre a Bologna:

Il 21 novembre ci fu il tragico epilogo: una bandiera rossa che era stata fatta sventolare dalla Torre degli Asinelli fu prontamente presa dalle camicie nere che, nel frattempo, giungevano da diversi punti della città affluendo verso il palazzo. Iniziarono gli scontri, con le guardie regie che chiusero il pesante portone temendo un assalto. Ben presto si scatenò il panico, vista anche la gran massa di persone che era giunta per la cerimonia dell'insediamento; furono gettate bombe a mano nel cortile, e alla fine si contarono dieci morti tra i socialisti e oltre sessanta feriti. Logicamente, la cerimonia era stata sospesa, ma i tafferugli continuarono all'interno dell'edificio; il consigliere liberale Giulio Giordani, che era anche mutilato di guerra, mori negli scontri.[2]

Lo strumento principale della violenza fascista erano le squadre d'azione, composte da giovani di rango sociale diverso, per lo più poco equipaggiati, che avevano come primo obiettivo quello di scongiurare il pericolo rosso. Le violenze delle camicie nere e le violenze rosse avevano portato ad un vero e proprio caos sociale, che si manifestava attraverso ferimenti, uccisioni, uso di bombe a mano. Questi scontri mostrano il contrasto tra due ideologie contrapposte e da qui il fascismo mostrò tutte le sue contraddizioni; Mussolini da socialista era diventato fascista, da anticapitalista e antiborghese era diventato “all'improvviso” alleato e sostenitore dei grandi industriali e della nascente Confindustria. In questi anni, a mio avviso, si potrebbe parlare di una sorta di terrorismo sociale e politico consumato sotto gli occhi velati della classe dirigente e del Re. Nel frattempo, Giovanni Giolitti con la sua politica compromissoria sperava di incanalare nella compagine parlamentare anche il movimento fascista:

[…] l'anziano uomo politico piemontese si trovò costretto ad accettare i fascisti nel Blocco nazionale per le elezioni annunciate, nella vana speranza di “addomesticarli”, ma costringendo di fatto lo Stato a trattare con i violenti e perturbatori dell'ordine pubblico, non accorgendosi che essi erano diventati un'organizzazione paramilitare. Indubbiamente, i governanti avevano sottovalutato la portata eversiva del fascismo, avendolo visto solo come antagonista del bolscevismo e non come una vera e propria forza in grado di smantellare lo stato liberale, cosa di cui era, al contrario, ben consapevole Mussolini, che comunque non aveva ancora assunto la carica di segretario generale dei Fasci di combattimento, poiché non aveva piena fiducia nel futuro del proprio movimento, e rimase di quest'idea fino alla vigilia della Marcia.[3]

Mussolini, dal canto suo, mirava al potere politico e per farlo doveva riassestare la sua posizione come leader indiscusso del movimento e successivamente trasformarlo in un vero e proprio partito:

Era inevitabile la scissione del Partito socialista, con la nascita di quello comunista, avvenuta il 21 gennaio 1921; nello stesso anno, nacque anche il partito nazionale fascista, con Mussolini che si poneva come àncora di salvezza per le aspettative della borghesia, avendo come collante l'amore patriottico-nazionalista e la sconfitta del bolscevismo e facendo leva sulle paure della gente per ciò che veniva propagandato sui comunisti, come la diceria che essi mangiassero i bambini. [4]

Sull'orlo di una guerra civile, il 3 agosto 1921 ci fu il “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti:

[…] che fu, senza dubbio, sintomo di titolarità del governo, che non riuscì a frenare, a disciplinare, a combattere gli estremismi e, ancora una volta, non capì la forza del fascismo che stava sempre più strangolando le istituzioni e la sopravvivenza stessa dello stato liberale. [5]

In realtà, questo accordo non era ben visto dai diversi ras locali, in quanto esso prevedeva lo scioglimento delle squadre d'azione e la stessa figura di Mussolini fu sul punto di vacillare:

Questo patto sembrò smentire e rinnegare la rivoluzione fascista, con Dino Grandi e Roberto Farinacci, esponenti più estremisti, che cercarono in ogni modo di sabotarlo, facendo intendere che potesse orientarsi verso un altro leader, magari D'Annunzio stesso. Dino Grandi, che stilerà, il 25 luglio 1943, il famoso ordine del giorno che cadrà lo stesso Duce, aveva allora molto meno del seguito ma solo in provincia, dove si era molto adoperato per assorbire i socialisti nei nascenti sindacati nazionali fascisti, e accusò il futuro capo del regime di aver tradito la base delle campagne emiliane. Farinacci era il ras di Cremona, ma anche lui limitava la sua sfera d'influenza e d'interessi alla provincia lombarda, e la differenza la faceva proprio Mussolini, che era invece noto in tutta la penisola. [6]

Addirittura, ad un certo punto lo stesso Mussolini abbandonerà il fascismo:

I risultati mi indicheranno la strada da seguire. Molti rospi ho inghiottito in questi ultimi tempi e molte solidarietà ho accettato per carità di fascismo. Ma a tutto c'è un limite ed io sono giunto a questo limite estremo. Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch'io posso fare a meno del fascismo. C'è posto per tutti in Italia anche per trenta fascismi, il che significa, poi, per nessun fascismo. [7]

Il 18 agosto ci fu l'annuncio delle dimissioni di Mussolini e il movimento sembrava definitivamente scisso, senza che gli avversari riuscissero ad approfittarne, convinti che si sarebbe disciolto come mai al sole. […]

Dall'altro lato non mancarono manifestazioni di solidarietà al futuro Duce, soprattutto da coloro che temevano non solo la frattura, ma anche l'involuzione del fascismo, l'idea di essere solo un qualcosa di passeggero e transitorio che non avrebbe inciso minimamente nella storia contemporanea e che nessuno avrebbe poi ricordato, poiché i “rossi” avrebbero stravinto. Furono proprio questi ultimi a non vedere l'occasione che si presentava ai loro occhi, con la crisi non solo del fascismo ma di tutto lo stato liberale, che non sapeva come incanalare positivamente le grandi masse; ancora una volta, i socialisti restarono immobili nella loro attesa dell'imminente rivoluzione e dell'involuzione naturale del capitalismo. [8]

Tuttavia, il 7 novembre, pochi mesi dopo l'annuncio delle dimissioni di Mussolini, si tenne un terzo congresso del movimento fascista:

La consacrazione definitiva di Mussolini a leader indiscusso del movimento avvenne durante il citato terzo congresso all'Augusteo di Roma, dove giunsero più di 4000 delegati, con il futuro Duce che istituzionalizzava il partito fascista, rinnegando il patto di pacificazione perché consapevole di non poter fare a meno delle forze squadriste; dall'altra parte, diede al movimento l'assetto di un vero partito, con un'organizzazione paramilitare alle spalle. [9]

Questo abbandono da parte di Mussolini del movimento potrebbe essere inquadrato in un'ottica di calcolo politico basato sulla volontà di entrare a far parte a tutti i costi della compagine governativa, anche rinunciando al fascismo. Sempre a novembre ci fu un altro importante evento:

Il 22 novembre nacque la milizia fascista, che venne rinominata Milizia volontaria per la sicurezza nazionale il 22 dicembre dell'anno successivo ed entrò in vigore con Regio decreto del 14 gennaio 1923 n. 31. [10]

La nascita di questa milizia volontaria è un dato importante perché fa evincere come Mussolini, a partire dalla presa del potere, creerà una serie di organismi paralleli legati a lui personalmente in netta contrapposizione agli organi di polizia e dei carabinieri controllati invece dal Re. Come possiamo leggere nell'articolo 5 dello Statuto Albertino:

Arte. 5- Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; [11]

A tal proposito, ricordiamo la costituzione dell'OVRA (“Opera Volontaria di Repressione dell'Antifascismo”), un'organizzazione che si occupava della repressione di fermenti sovversivi. Tornando all'ideologia mussoliniana, nel 1921 il futuro Duce vuole dare al suo partito e ai suoi adepti un vigore legale. Per fare ciò, doveva dimostrare un certo grado di credibilità nei confronti delle due istituzioni più importanti della storia d'Italia, ovvero la Monarchia e la Chiesa. Mussolini da convinto anticlericale cerca di inglobare nella sfera delle sue simpatie anche la Chiesa di Roma e non solo perché la maggior parte del popolo italiano era cattolico, ma anche perché la chiesa poteva svolgere un ruolo importante di fruizione del verbo fascista attraverso le sue strutture capillari su tutto il territorio italiano, ovvero le diocesi.

Cosa accadde nei mesi precedenti la marcia?

La Mellace parla appunto dei primi mesi del 1922, in cui ancora confluivano le solite violenze tra fascisti e comunisti in varie parti d'Italia. [12] In questo frangente, scrive la Mellace:

Mussolini capì che doveva arrivare legalmente al governo, ora che aveva larghi strati della popolazione dalla sua parte; prometteva un liberismo totale, con la proibizione di scioperi e occupazioni di qualsiasi genere e continuando a sfidare lo Stato italiano. [13]

Intanto, la situazione politica italiana era fortemente in crisi nell'estate del 1922:

Vittorio Emanuele Orlando, che aveva avuto un ruolo fondamentale nelle caratteristiche di pace a Versailles, il 30 luglio declinava l'incarico di formare un nuovo governo, che ritornava così a Luigi Facta, che lo stesso giorno portò un nuovo esecutivo a Villa Savoia a Roma , oggi Villa Ada. Vittorio Emanuele III, che seguiva già da tempo l'ascesa politica di Mussolini, si vide costretto a richiamare il politico piemontese, al quale era legato da un'amicizia profonda[…]L'uomo politico piemontese riuscì a mettere insieme, dal 1° agosto 1922, una coalizione molto traballante, con Marcello Soleri al ministero della Guerra che ricoprì un ruolo ben preciso durante il prologo della Marcia; contemporaneamente, Turati cercava di mettere in guardia il Parlamento sull'assalto fascista,[14]

Per Mussolini era importante guadagnare tempo, magari facendo intendere di accontentarsi di qualche ministero offerto da Facta, anche se il fulcro della questione restava il re. Da parte democratica, al contrario, si caldeggiava l'arresto di Mussolini per scongiurare qualche colpo di mano, ma anche l'ipotesi di nuove elezioni, che però indebolirebbero la sinistra a vantaggio del centro-destra. Il futuro Duce decise che la via per salire al potere doveva passare dal Parlamento, senza disdegnare l'aiuto delle intimidazioni e violenze delle camicie nere, mentre il consenso cresceva estendendosi anche nel sud della penisola e con l'appoggio della borghesia, che si rassicurava della messa a tacere dei “rossi”. [15]

L'autrice mostra come la risonanza di una possibile marcia su Roma era fortemente pensata e sentita da tutte le forze in campo, dagli stessi fascisti e dai loro oppositori. Il 4 ottobre del 1922, Mussolini tenne a Milano un discorso emblematico per la successiva marcia su Roma:

[…] dove si dichiarava apertamente che ormai esistevano due Italie: una liberale e una fascista, con la prima destinata a soccombere. Ancora una volta, lo Stato e Vittorio Emanuele III restavano sordi, anche se era stato diffuso ai giornali proprio in quella giornata un comunicato pubblico da parte dell'Agenzia delle informazioni

-che poi confluirà nel ministero della Cultura popolare - dove si parlerà chiaramente degli allestimenti per una possibile insurrezione. [16]

Viene spontaneo chiedersi se, la Corona era indifferente verso la politica italiana del tempo in quanto interveniva solo nei casi di estrema necessità. D'altro canto, Mussolini aveva un certo timore nell'inimicarsi il Re e anche la Chiesa di Roma, per questo molto spesso si parla di una “triarchia”. Quindi doveva agire cautamente all'interno di un equilibrio di diversi poteri. Come sappiamo, la sua idea di Repubblica non era basata sugli ideali liberali e democratici, ma su quelli dittatoriali, chiariti solo dopo la sua presa al potere. La storia ci insegna come non tutte le repubbliche e non tutte le monarchie siano necessariamente sintomo di democrazia. Mussolini con l'abbandono degli ideali repubblicani voleva arrivare ad un confronto diretto con il Re, che comunque era garante del sistema liberale e democratico in Italia. Il futuro Duce sapeva molto bene come ammaestrare il potere regio. È da ricordare che tutte le leggi che furono promulgate dal regime fascista, vennero a loro volta accettate e promulgate dal Re. La personalità del sovrano non era forte e questo Mussolini lo sapeva bene, anche se tra i due non mancarono screzi e dissapori. Ritornando ai fatti d'ottobre:

[…] Nitti cercò di creare un governo di unità nazionale con Mussolini, ma il giorno 14 l'accordo, che comprendeva anche la presenza di D'Annunzio, non andò in porto e il futuro Duce capì che la situazione era tale da poter tentare un colpo di mano, mantenendo però i contatti con Orlando. Nel frattempo, c'era stato un incontro tra il ministro dell'Interno Paolino Taddei, il generale Pietro Badoglio e altri militari, per discutere dell'adunata fascista programmata per il 24 dello stesso mese. Lo Stato giocò anche la carta del vecchio statista Giolitti, per assicurare una certa stabilità e continuità essendo il politico piemontese conosciuto anche all'estero. [17]

[…] forte della situazione creatasi e soprattutto del carisma che catturava la gente con la promessa di protezione dal bolscevismo e anche dall'ipocrisia della classe dirigente, Mussolini rincarò la dose, promettendo il prossimo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Si serviva del popolo ma lo considerava inferiore. [18]

Il progetto insurrezionale fascista aveva alle spalle una grande preparazione finanziata dalla massoneria, dalla Banca commerciale e dai grandi industriali, alcuni dei quali erano in Parlamento.

Il futuro Duce si guardava bene dall'organizzare le sue colonne in punti strategici attorno alla capitale e non solo [19] . Il maestro di Predappio era ben consapevole del numero di uomini del Regio esercito, infatti, nel 1918 contava circa 3.045.000 soldati. Quindi se avesse voluto, il Re avrebbe potuto radere al suolo le forze mussoliniane, ma d'altro canto Vittorio Emanuele III voleva scongiurare a tutti i costi una guerra civile.

Per la realizzazione del suo progetto politico, il futuro Duce doveva assicurare che le forze presenti nella capitale non gli sarebbero state ostili, poiché il generale Emanuele Pugliese aveva già organizzato la difesa della città con oltre 28.000 uomini e aveva già allertato dalla fine di settembre i comandi superiori; doveva continuare ancora a giocare anche la carta della legalità, sondando Giolitti, che era sempre dell'idea d'inserire il PNF nella propria orbita istituzionale, ei probabili candidati alla presidenza del Consiglio, con l'ausilio dello stesso Grandi che era per la presa del potere in modo dominante, come anche De Vecchi, fedele al re. [20]

Fondamentale era occupare i punti nevralgici, come stazioni ferroviarie e uffici pubblici, per poi marciare compatti verso la capitale dai luoghi di raccolta delle camicie nere, senza dare il tempo per un'eventuale reazione da parte dello Stato. [21]

approfondimento 2

L'autrice Giuseppina Mellace durante la presentazione nel Circolo culturale Gocce d'Autore a Potenza

La Mellace racconta come solo due giorni prima della marcia su Roma, il governo italiano cominciò a reagire all'allarmismo che Mussolini aveva generato. La congiura di un possibile colpo di Stato era stata preventivamente organizzata dal futuro Duce, che si nascondeva a Milano, più vicina alla Svizzera ei suoi collaboratori posti in zone strategiche per la conquista di Roma. Nel pomeriggio del 26 ottobre, i ministeri di radunarono a Roma per predisporre la protezione della capitale e dello Stato stesso, sollecitando l'arresto dei capi del movimento fascista e incentivando l'esercito per la difesa, anche se Luigi Facta, a capo del governo , era ancora convinto di poter arrivare ad un compromesso con Mussolini. [22]

Il 27 Mussolini non aveva ancora sciolto la riserva e continuava a giocare su due tavoli contemporaneamente, trattando con Giolitti mentre Grandi e De Vecchi continuavano a trattare con Salandra, ma mantenendo sempre in piedi il piano insurrezionale. Lo stesso Orlando sollecitava un cambiamento, prospettando un governo di unione nazionale con Mussolini agli Interni e successive elezioni. [23]

Ancora una volta, questo dato mostra come la classe dirigente era convinta di poter scongiurare il pericolo fascista dirigendolo e inglobandolo all'interno delle istituzioni statali. Mussolini, in realtà, era disposto ad un governo di unione nazionale con le altre forze politiche, ma questo sarebbe stato il preludio del suo potere personale, gradualmente avrebbe esautorato le altre componenti politiche e lo stesso Parlamento.

Mussolini si riteneva disponibile a collaborare con Salandra o con Orlando, ma ora pretendeva un numero consistente di ministri, tra cui quelli della Guerra, della Giustizia, del Lavoro e soprattutto degli Interni. [24]

L'alba del nuovo giorno, di quel 28 ottobre fu fatidica:

Il Consiglio dei ministri si concluse verso le sei del mattino, con la decisione unanime di proclamare lo stato d'assedio che il re doveva solo ratificare, ma nel frattempo si telegrafava a tutti i prefetti della penisola per informarli della nuova situazione e di tutte le misure da prendere. All'alba era arrivata la comunicazione di un'insurrezione in atto a Milano e in altre parti d'Italia, che fece propendere per riunire nuovamente il Consiglio dei ministri con Marcello Soleri, favorevole a sbarrare la strada alle camicie nere; si decisamente inoltre di consigliare

sua Maestà di trasferirsi da Villa Savoia al Quirinale, ritenuto più sicuro.  Il governo varò misure come il divieto di assembramenti e quello di portare armi, pur con il relativo documento, e la chiusura di cinema e teatri, così come lo stop alla circolazione dei mezzi pubblici e privati.[25]

Mentre la capitale veniva tappezzata di manifesti per informare la popolazione dello stadio d’assedio, Luigi Facta, verso le nove, giunse a Villa Savoia per far firmare al re il decreto, ma quest’ultimo rifiutò. La disinformazione sul presunto numero di fascisti che accerchiavano Roma, circa 70.000 persone dimostra come, ancora una volta, non vi era stata una capillare smobilitazione delle forze dell’ordine e lo stesso Governo non era a conoscenza dei vari spostamenti e del numero esatto dei componenti. Infatti, solo in seguito, Mussolini preso il potere, rivelerà al sovrano che le camicie nere presenti non arrivavano a 30.000 persone.[26] Forse per il re dichiarare lo stato d’assedio significava mettere ancora più in pericolo il Paese, dato che alcuni membri delle forze militari erano collusi con le camicie nere che invocavano un certo patriottismo e nazionalismo. Inoltre, il re doveva tenere a bada l’élite in Parlamento, in quanto alcuni di essi avevano addirittura sovvenzionato la marcia su Roma e spingevano per un governo Mussolini. [27] La mattina del 29 ottobre ci fu l’incontro propizio tra il re e Salandra per decidere delle sorti del Governo: con un colpo di scena, Vittorio Emanuele III optò di affidare il governo a Mussolini, il quale aspettò il telegramma ufficiale per partire da Milano. Prima dell’arrivo di Mussolini, nella capitale ci furono molti scontri tra fascisti e antifascisti, causando morti e feriti.[28]

[…] ma nel tardo pomeriggio il futuro Duce risalì il Colle con la lista dei ministri che venne approvata dal monarca, con tre fascisti più Mussolini - che si prese ad interim gli Interni e gli Esteri -, due popolari, due militari, un nazionalista e altri, dimostrando di voler condividere il potere, anche se ancora per poco, mettendo da parte il suo repubblicanesimo, almeno apparentemente, poiché nel ventennio che seguì non mancarono frizioni e dissapori con il monarca che forse aveva compreso di aver “abdicato” la sua funzione di capo di Stato a colui che era diventato il dittatore d'Italia.[29]

Emblematico fu il “discorso del bivacco” tenuto alla Camera dal Duce, che mostrava i primi segni di un’antidemocrazia e di una dittatura dirompente, minacciando in modo non molto velato di esautorare la rappresentanza del popolo.

Colui che avrebbe governato la penisola per venti lunghi anni ebbe la maggioranza alla Camera con 306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti, con la stessa situazione che si ripresentò al Senato. […] La dittatura ebbe inizio con la richiesta dei pieni poteri al parlamento per la riforma burocratica e finanziaria.[30]

Per vie “legali” iniziarono le prime uccisioni e i brogli elettorali sotto gli occhi di tutti.

[…] mentre il 23 aprile 1923 Nitti ancora scriveva ad Amendola che «l’esperimento fascista si compia indisturbato; nessuna opposizione deve venire da parte nostra [...]. Se l’esperimento non riuscirà nessuno potrà dire che l’insuccesso dipende da noi, o che comunque abbiamo creato ostacoli. Se riuscirà si dovrà tornare alla normalità o alla costituzione ed è la sola cosa che io desidero e i fascisti ci avranno reso un servigio».[31]

Il prossimo passo di Mussolini fu quello di eliminare legalmente gli oppositori e per farlo minacciò ancora una volta la Camera nel 1923, che doveva essere sciolta se non avesse approvato la Legge Acerbo.[32] La nuova legge elettorale maggioritaria prevedeva di avvantaggiare la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa, ossia il 25% dei voti, assegnandole i due terzi dei seggi.

All’inizio del 1924, la Camera fu sciolta e molti esponenti liberali, tra cui Orlando e Sonnino, e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi insieme ai fascisti nelle liste nazionali. Infatti, nelle elezioni del ’24, le liste nazionali ottennero il 65% dei voti. Tra il 1926 e il 1928, attraverso le leggi fascistissime, il regime costituì il partito unico ed era stata anche abolita la separazione dei poteri e tutte le decisioni era concentrate nelle mani di Mussolini. Questi atti sancirono la fine della democrazia in Italia e l’inizio del totalitarismo. Un totalitarismo “imperfetto” o incompiuto, in quanto il fascismo italiano non identificò mai pienamente il partito con lo Stato, poiché era presente il Re e la Chiesa di Roma e le sue strutture. Infatti, l’unica associazione accettata e riconosciuta dal fascismo sarà l’Azione Cattolica.

Le lotte e gli scontri continuarono dopo l’insediamento di Mussolini a capo del governo, soprattutto a Roma, con Nenni che ne denunciò la gravità senza essere particolarmente ascoltato: tutto culminerà nel famoso delitto Matteotti, il 10 giugno 1924.[33]

In conclusione, Giuseppina Mellace espone gli eventi storici in tutte le loro sfumature, raccontando anche aneddoti particolari e ricordando, alla fine del libro, le donne che hanno partecipato alla marcia su Roma. L’intenso lavoro dell’autrice è dimostrato dalla varietà bibliografica e dai documenti presenti per una lettura di approfondimento e di interesse storiografico.

Alessia Valente

 

 

[1] Giuseppina Mellace, La marcia su Roma-uno degli eventi più tragici e importanti della storia italiana, Newton Compton editori, Roma, 2022, p. 148.

[2]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 154.

[3]  ivi, p. 163.

[4]  ivi, p. 173.

[5]  ivi, p. 175.

[6]  Giuseppina Mellace, op. cit., pp. 176-177.

[7]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 177 che cita «Il Popolo d’Italia», 7 agosto 1921.

[8]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 177-178.

[9]  ivi, p. 181.

[10] ivi, pp. 184-185.

[11]  https://www.quirinale.it/allegati_statici/costituzione/Statutoalbertino.pdf

[12]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 189.

[13]  ivi, p. 194.

[14]  ivi, pp. 206-207.

[15]  ivi, p. 213.

[16]  Giuseppina Mellace, p. 225.

[17]  ivi, op. cit., p. 230.

[18]  ivi, p. 231.

[19]  ivi, pp. 232-234.

[20]  ivi, pp. 236-237.

[21]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 241.

[22]  ivi, pp. 247-248.

[23]  ivi, p. 249.

[24]  ivi, p. 252.

[25]  ivi, pp. 254-255.

[26]  ivi, pp. 255-256.

[27]  Giuseppina Mellace, op. cit., p. 258.

[28]  ivi, pp. 260-263.

[29]  ivi, p. 264.

[30]  ivi, p. 274.

[31]   iv, pag. 275.

[32]   iv, pag. 276.

[33]   ivi, p. 277.

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