Ci sono emozioni che solo la musica riesce a trasmettere. A volte, queste emozioni hanno una storia o più storie, singole o di comunità, un filo con il tempo che non si può spezzare, una radice antropologica, un richiamo ai sensi ed allo spirito. Ascoltare o suonare il jazz, musica dell’anima, è indice di altissima sensibilità. Un fenomeno culturale e musicale che ha poco più di un secolo e che si interseca con problematiche sociali, razziali, politiche, geografiche, un fenomeno che ha scomodato, tra gli altri, anche il noto sociologo Zygmunt Bauman per diverse sue ricerche. Ma chi ama il jazz lo “sente” più che ascoltarlo o suonarlo, si astrae e dà vita alla sua genialità, che ha il “rigore della libertà” e si sgancia dalle chiavi di violino e dalle righe del pentagramma con le magie dell’improvvisazione, della poliritmia e della progressione. Un genere musicale che ha antiche radici africane ma che è partito da New Orleans nel 1910 ed ha attraversato tutti i meridiani e i paralleli nei decenni in cui è “esploso” (dagli anni trenta agli anni cinquanta, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale) e che ha regalato alla storia artisti di straordinaria caratura, da Benny Goodman a Ella Fitzgerald, da Dizzy Gillespie a Charlie Parker, da John Coltrane a Louis Armstrong, da Duke Ellington a Glenn Miller, da George Gershwin a Charles Mingus, da Miles Davis a Jerry Mulligan e tanti, tanti altri, riferimenti inequivocabili anche per la cultura musicale degli anni successivi a quelli in cui si sono espressi (il jazz afrocubano e sudamericano – pensiamo ad artisti come Ruben Gonzalez, Paco de Lucia o Joao Gilberto – ed anche il progressive-rock degli anni Settanta, per non dire degli anni dei pianobar, ad esempio). Musica popolare, espressione di cultura, ma rispondere alla domanda “cos’è il jazz?”, se non lo si ama e, soprattutto, e se non si conosce questo genere musicale non è facile.
Le pubblicazioni che riguardano il jazz, soprattutto dal dopoguerra in poi (considerata la carenza documentale riferita al periodo delle origini), sono numerose, ma il libro della Vellani ha una sua unicità e una indiscussa valenza didattica. L’autrice, che si occupa di arte e spettacolo anche quale operatrice dell’informazione, ripercorre nel testo la storia, la geografia e, soprattutto, l’essenza di questo modo di concepire la musica, questa musica che “libera” e “fa librare”, la musica dell’anima, più di tutte le altre, quella che penetra nella “profondità” dell’anima. Il lavoro “maieutico” della Vellani avviene attraverso un viaggio nel tempo e nei luoghi, nelle storie dei popoli, un viaggio che viene percorso “a tappe” in forma di dialoghi adattissimi ad una possibile trasposizione teatrale. Dalle origini africane agli sbarchi in America, lo schiavismo, la diversità di colore, il porto di New Orleans dove attraccavano le navi che trasportavano immigrati provenienti da ogni angolo della Terra facendo tappa a Chicago, e poi la dinamica degli eventi politici, bellici e sociali, fino ad arrivare ai nostri giorni. Nel corpo del testo spazio per i “sotto-generi”, per lo spiritual e per il gospel, elevazioni religiose del popolo-jazz, e poi per il blues, il “malinconico blues”, per il ragtime, per lo swing, sino a giungere alla fusion e al free-jazz dei nostri anni. Interessanti, nel testo, anche i riferimenti alle espressioni italiane attuali (come Stefano Bollani, Enrico Rava, Sergio Cammariere e Paolo Fresu) e del passato (Renato Carosone, Natalino Otto, Lino Patruno, Franco Cerri, Enrico Intra e molti altri).
Un libro non destinato ai soli allievi o ai soli giovani, quindi, che può interessare anche coloro che non sono addentro a questo “mondo-jazz” che, a dispetto delle radici dalle quali nasce e dall’insito richiamo al più ampio concetto di libertà, è da molti considerato (a torto) “snob” ed “eccentrico”. «Un genere che» – come evidenzia l’autrice – «non è per tutti, ma che merita di essere conosciuto e che può incuriosire e far avvicinare ad esso molti altri».
Letterio Licordari