La madre, Panchita che ha in qualche modo accettato una condizione di subalternità a un compagno, lo “zio” Ramòn, il quale ha mantenuto comunque l’appellativo di “padre migliore che potesse desiderare”. Uomo, inizialmente rinnegato e ignorato nel primo ruolo, è divenuto in seguito il migliore amico e il confidente della Allende, tanto da non farle sentire mai la mancanza di quello biologico, tanto meno la curiosità di scoprirne l’identità.
La figlia, Paula, persa a causa di una malattia gravissima e inguaribile, ma esempio di “spirito presente” e di rinnegamento testardo del dolore, con attaccamento poetico alla vita e a tutte le sue sfumature.
Le intellettuali e attiviste che l’hanno sostenuta e accompagnata nei processi della memoria e della custodia della propria creatività. In primis, l’agente letterario, Carmen Balcells, sua mentore e amica, “generosa fino a rasentare la pazzia”, e Olga Murray, la sua eroina, “una ragazzina minuta di novantaquattro anni, energica e appassionata, che orienta il suo destino, riempie i suoi giorni e si mantiene giovane”, nonché avvocato per i diritti delle giovani del Nepal.
Il gruppo delle amiche e sodali, “Sorelle del Perpetuo disordine”, con le quali ha disegnato strade di allegria e di mutuo sostegno.
Il nonno Agustìn, adorato tata, uomo per cui la vita “consisteva in disciplina, sacrificio e responsabilità” e che “camminava a testa alta, perché l’onore prima di tutto”, ma responsabile della sua educazione: “Sono cresciuta alla scuola stoica, per cui occorreva evitare ogni genere di ostentazione e spreco, non bisognava lamentarsi, ma agire, sopportare, fare il proprio dovere, non aspettarsi nulla, cavarsela da soli, aiutare il prossimo senza sbandierarlo. (…) Durante l’adolescenza, fu evidente che ero fuori posto ovunque e toccò al mio povero nonno combattere con me. Non che fossi pigra o sfrontata; ero un’allieva molto brava e rispettavo le regole di convivenza senza protestare”.
Più di tutte, alla lettrice, ha colpito la primavera della felicità che “non è esuberante né chiassosa, come l’allegria e il piacere; è silenziosa, tranquilla, morbida, è uno stato intimo di benessere che inizia con l’amore verso me stessa. (…) Ho onorato il patto, come direbbe mio nonno, e fatto molto più di quanto sperassi”.
C’è un antico costume, per il quale gli anni si contano in primavere. Un fatto ciclico e coincidente con la stagione che pare essere quella più idonea a fotografare la ri-nascita, la ri-scoperta, il risveglio, a esaltare la trasversalità sensoriale di ciascuno. La magia e il mistero. E che, contestualmente, è anche la più vicina alla pacatezza dell’animo, che si bea di quanto la natura (o il destino!) fa con il proprio perimetro, fisico e mentale.
E spesso, non si tratta che di un regalo prezioso.
“Il cervello mi funziona ancora. Mi piace il mio cervello. Mi sono liberata dell’insicurezza, dei desideri irrazionali, dei complessi inutili e di altri peccati capitali che non valevano la pena. Lascio che le cose vadano per il loro corso, mi alleggerisco … Avrei dovuto farlo prima. Ho scelto una vita semplice, con poche cose materiali e più tempo libero, meno chiasso e più silenzio”.
Qual è, infine, la primavera che ci si augura in futuro?
“Vogliamo un modo gentile in cui regnino l’empatia, l’onestà, la verità e la compassione. E più di ogni altra cosa vogliamo un mondo allegro. A questo aspiriamo noi streghe buone. Ciò che desideriamo, non è una fantasticheria, è un progetto”- afferma con certezza la Allende nell’ultima pagina della sua creatura letteraria.
Virginia Cortese