Chiunque ne ambisca conoscere segreti, virtù, metafore e ontologie, non può farsi sfuggire il breve ma apicale trattato filosofico “Lo splendore del nero. Filosofia di un non-colore (Adriano Salani Editore s.u. r. l. Traduzione di Michele Zaffarano)” di Alain Badiou, scrittore, filosofo, professore emerito all’École normale supérieure de la rue d’Ulm, considerato tra i massimi pensatori viventi. Infanzia e giovinezza, Le dialettiche del nero, Vestizioni, Fisica, biologia e antropologia sono le esplorazioni in cui il lettore si lancia, seguendo le spirali di genialità e di intuizione su un colore che ha acquisito numerosi significati e collocazioni. “Il buio è il luogo in cui l’atto si compie, il luogo in cui la prossimità di quest’atto mette i brividi a chi non vede. La luce del giorno, però, si dimentica di quanto è stato compiuto”- spiega Badiou, investigando ciò che accade e la memoria dello stesso accadere.
Concetto supportato dalla ricerca stilistica del pittore Pierre Soulages (citato nel testo), secondo cui la materia vive di luce e che ha modellato il nero sulla carta e sulla tela, di fatto rivoluzionando l’architettura dei segni. Ma il segno è anche indagato da Badiou che ha narrato con eleganza e acume il processo creativo che è alla base di ogni forma di scrittura: “Una volta, dentro i calamai e le boccette, l’inchiostro era nero e macchiava tutte le dita, perché sbavava e colava implacabilmente. (…) Che miracolo quella frase comprensibile e addirittura affascinante che esce dall’inchiostro e si insinua in mezzo ai “grumi”. È il nero del senso estorto al nero della materia”. E se è vero che il nero, rovescia la propria impronta decisiva e percettibile su una base (quasi sempre bianca!), qual è il rapporto che intercorre tra esso e la negazione di esso? “A questo mondo, tutto proviene da un minuzioso quanto inventivo dosaggio del nero scaraventato sulla temibile invariabilità del bianco. Chi non lo sperimenta, e non lo sperimenta il prima possibile, non imparerà niente. (…) Il nero non è un colore e non è presente come tale nell’analisi dello spettro della luce. Il nostro arcobaleno, questo miracoloso arco teso tra la pioggia e il sole, ha a propria disposizione una tavolozza, vibrante e umida, che va dal rosso al viola. (…) Non dovremmo forse tornare alla fatale coppia di bianco e nero? Stiamo attenti alle trappole del bianco. Gli scienziati se ne fanno garanti: il bianco è un risultato complesso ma mutevole, una combinazione evanescente. Il nero è assenza di ogni colore, mentre il bianco è il contaminato mescolarsi di tutti i colori. Il nero è il Nulla dei colori e il bianco è il loro Tutto. La loro essenziale complicità risulta dal fatto che con loro due, è il colore del reale a venire meno”.
Questo interrogativo (lontano da ogni imperativo, s’intenda) ci costringe a fare i conti con la Questione, quella più intima, più rigorosa e più assoluta dell’io: di che colore è la conoscenza, o per meglio dire il pensiero? “Come al solito, noi coloriamo di nero quello che non conosciamo. Rimane il fatto che il nero e l’oscurità vengono utilizzati per nominare ciò che manca nella percezione e fare in modo che nel pensiero non manchi niente. Abbiamo così la conferma che il nero cosmologico non è tanto il nero della notte che poeticamente si contrappone al blu del cielo, quanto il nome che viene dato a tutto ciò che è scomparso da ogni possibile orizzonte percettivo o a tutto quello che dovrebbe essere affinché niente possa venire a mancare al concetto”. Una linea infinita che limitare equivarrebbe a compiere un reato contro la ragione. E nell’Uomo, in cui abitano in modo equivalente (almeno su piani ideali) ragione ed emozione, idee e sogni, notti stellate e candori di neve, non collochiamo alcuna identificazione cromatica: “L’umanità in quanto tale è senza colore”.
Capolavoro assoluto.
Virginia Cortese