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Meglio o peggio di così - Il viaggio diuturno di Itlodeo

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Editoriale colore bluQuando nel marzo dello scorso anno questa rivista ottenne la registrazione come testata giornalistica, un curioso caso ci fece tornare alla mente uno degli archetipi della letteratura distopica contemporanea, quel Fahrenheit 451 di Ray Bradbury che molto aveva giocato sull’immaginazione del futuro dei libri, della società, delle libertà individuali. Esattamente cinquecento anni fa, nel 1516, Tommaso Moro dava alle stampe il suo L’Utopia, noto ai più, nel quale descrive un viaggio di un filosofo in un’isola, omonima, dove viene vissuta l’esperienza di una società perfetta. Essa si contrapponeva, evidentemente, a quella che all’epoca veniva dall’autore individuata come la somma dei maggiori mali di cui soffrisse il mondo a lui contemporaneo.

L’abolizione, perché inutile, della proprietà privata, la libertà di parola e di pensiero, la tolleranza religiosa, ma anche una scansione dei tempi di vita dell’uomo che riservava soltanto sei ore al lavoro, e valorizzava invece il riposo, la meditazione e la coltivazione della propria elevazione culturale, tanto era assunto invece come il vero valore dell’esistere. È fatto noto che il mondo, da allora ad oggi, salve eccezioni, non sia andato in quella direzione. Del sogno di Moro a noi perviene il solo lascito della parola, utopia, appunto, dall’etimo e dal significato evidenti, che nel nostro vivere spingiamo, se non in terre lontane di un globo pressoché totalmente conosciuto ormai, più in là nel tempo. Più in là nel tempo, si sono intanto affastellate visioni negative, apocalittiche, crepuscolari, criminali, catastrofiste e tragiche, che hanno riempito il nostro futuro e saturato la nostra stessa capacità di immaginarlo, non dico di progettarlo. Esempi, dalla letteratura mondiale alla cinematografia, all’arte, se ne potrebbero fare così tanti, troppi, troppi per sceglierne qualcuno soltanto. Quello che magari sgomenta, o che dovrebbe, a mio avviso, è che se percorriamo con la mente le visioni positivamente utopistiche e quelle distopiche, queste ultime manifestano una antipatica vocazione a dimostrarsi più realizzabili. Dalla dilatazione della guerra, che è ormai dimensione quotidiana accettata, al controllo capillare della vita privata delle persone, a certe tendenze della medicina e dell’etica, alla strutturazione di una società globale gerarchizzata dove la stragrande maggioranza degli individui vive soltanto al servizio di poche élite dominanti, alla mistificazione scientifica della verità, alla marginalizzazione della cultura e della tradizione, alla sostituzione sistematica dell’informazione con la propaganda, per arrivare fino alla dilapidazione delle risorse naturali ed alla distruzione dello stesso ecosistema del pianeta, tanto da ipotizzarne ormai concretamente un esodo per poter dare uno sbocco al genere umano (e gli altri esseri viventi? Boh), nulla è stato pessimisticamente immaginato dai vari Orwell, Huxley, Wells, Asimov, Burgess, e poi Kubrik, Lang, Flemyng, Gilliam, Scott, Carpenter, Crichton e decine di altri, per limitarsi a romanzieri e cineasti, che non abbia dismesso già oggi i panni del futuristico, per apparire invece, credibile, verosimile, anzi attendibile, probabile quasi. E allora? Questa forse inconsulta introduzione la uso per fare da eco ad iniziative attuali e in parte locali, che si svolgono proprio in questi giorni tra le città della Basilicata e quelle dell’intero Paese, che vale la pena di seguire. Di persona, o negli esiti che certamente verranno documentati. Parlo di Materadio, la festa di Radio 3 Rai in calendario dal 23 al 25 settembre da Matera, che si offre di aprire uno spiraglio, attraverso le arti, sulle visioni positivamente utopistiche del futuro, volutamente abuso d’un rafforzativo. Parlo dell’interessante prologo a questa iniziativa che si è tenuto presso l’Università della Basilicata lo scorso 23 settembre, quando si è parlato di una figura, assieme locale e globale, come quella di Leonardo Sinisgalli, poeta e visionario uomo delle macchine, come abbrivio di un discorso sull’utopia della scienza e il suo dialogo con le altre forme del sapere. Parlo della Notte Europea dei Ricercatori, in programma per il 30 settembre prossimo, con il suo potenziale di domande, e di riflessioni. Parlo, perché no, anche delle Giornate Europee del Patrimonio, programmate proprio per il 24 e il 25 settembre, e che in una città come Potenza, città dalla quale scriviamo, si celebrano con una mostra bibliografica allestita presso la locale Biblioteca Nazionale dedicata alla Costituzione della Repubblica Italiana, il cui settuagenario legno proprio in questi mesi affronta procelle che potranno spingerla verso l’utopia della piena attuazione dei suoi principi fondativi o verso la distopia di un loro definitivo abbandono, non prima di una compiuta mutazione genetica. Si può legittimamente pensare che viaggiare con l’immaginazione, ottimisticamente o pessimisticamente, nel futuro, possa distogliere dagli affanni del vivere qui e adesso. Si può, altrettanto legittimamente, e proficuamente, io ritengo, leggere questi scenari, osservare queste narrazioni remote nel se e nel quando, per analizzare in maniera più critica, più profonda o consapevole, quanto già oggi accade, quanto già oggi è. Qualche autorevole commentatore di Moro legge la sua opera come un esempio del pensiero di Platone secondo il quale, passi la grossezza con la quale lo esprimo, la vera realtà è l’idea, mentre invece quella che osserviamo intorno a noi, che tocchiamo e perciò definiamo realtà, altro non sarebbe che una deviazione, un accidente, rispetto alla vera e ordinata natura delle cose. Come che sia, meglio o peggio, continuiamo ad avere il dovere di pensarlo, un futuro.

Rocco Infantino

Rocco Infantino

Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.

Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.

Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.

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