Ricordo ancora e perfettamente la riproduzione delle maschere che faceva utilizzando grossi rotoli di carta da cui ricavava singoli fogli che avrebbe poi appeso alle pareti per decorare la sua aula. Ogni anno li tirava fuori con la gioia incontenibile dei bambini che esplodeva insieme agli srotolamenti. Era una festa, una vera festa perché ci si poteva finalmente spogliare delle proprie inibizioni e divertirsi a indossare i panni di quelle iconiche figure. Tra le bambine si litigava a chi dovesse essere Rosaura piuttosto che Colombina – erano troppo poche le maschere femminili rispetto a quelle maschili – e tra i maschietti c’era invece l’imbarazzo della scelta tra Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Pantalone, Beppe Nappa o Capitan Spaventa. E interveniva la Maestra a sedare le rivolte degli infanti mescolando le carte e attribuendo i ruoli così come capitavano, senza distinzione di genere e di preferenze. Figure quasi mitologiche, viste con gli occhi di oggi, ma che hanno da sempre rappresentato una ghiotta occasione per vivere fuori dai canoni imposti da una quotidianità poco incline a benefici spazi di creatività.
E liberatori erano i giochi di drammatizzazione che consentivano di compiere interminabili viaggi tra i luoghi natali delle maschere e le loro chiassose vicende. È l’arte dell’Inventore, quella che ha guidato la mente e la mano di Goldoni nelle sue opere e in particolare in Arlecchino servitore di due padroni che i più piccoli si divertivano a rappresentare imitandone le parlate e le movenze. Il gioco consisteva nel rendere reali caricature fatte ad arte riproducendo i vizi umani e le sue goffaggini, le sue paure e i suoi difetti, facendo attenzione a mantenersi nei margini disegnati da una umanità concentrata più sulla forma di certi comportamenti che sulla loro origine. Più prodiga a controllarli e a tenerli a bada che a farli uscire fuori per conoscerli e comprenderli.
Una forma antica di contrapposizione tra archetipi e stereotipi che quelle maschere hanno rappresentato nel corso della storia, divertendo con le loro astrusità e al contempo inducendo alla riflessione sui caratteri incarnati. Un gioco a demolire e a ricostruire modelli, a scardinare certezze e a costruirne di nuove. Un salto fuori e un salto dentro, fuori dal confine tracciato dal canone e dentro le sue linee. Questa è in fondo la ricerca di senso data al gioco delle parti, a ciò che sta dietro la maschera e a ciò che viene fuori. E il coraggio sta tutto nel rimanere al di fuori di quello schema preconfezionato che le maschere si divertono a prendere in giro da sempre.
Recita l’albo illustrato degli anni ’50: «La loro vita (quella delle maschere n.d.r.) è cominciata da quando l’uomo ha osservato e giudicato il proprio simile e si è proposto di correggerlo, sostituendo alla severità una sorridente benevolenza. E poiché nella vita in comune i difetti degli uomini sono comunicativi, le maschere hanno rappresentato tutta una collettività fin quasi a divenire simboli. […] La piatta scioccheria, la smargiasseria verbosa, la viltà chiacchierona, l’astuzia fraudolenta, la bonomia incapace, la spilorceria accattona, la vanità tronfia: ogni aspetto delle debolezze umane trova nelle maschere una specie di sintesi burlesca e di acuta analisi psicologica».
È un inno a quell’umanità capace di prendersi gioco dei propri difetti e di quelli altrui, di astenersi dal giudicare chi indossa pensieri diversi, di lodare la divergenza del fare piuttosto che la convergenza del dire, di inglobare nel processo collettivo chi ama ri-generarsi attraverso le infinite sfumature della creatività. E tutto questo processo non può che partire da bambini, da quando dalle braccia dei genitori si passa a quelle dei maestri. L’uso del pensiero divergente, delle infinite possibilità di rappresentazione del reale, del gioco delle parti comincia proprio in quella fase, e da un quadro di regole predefinite si può passare ad un altro ricreato su quelle basi ma con una visione più ampia e più prodiga di possibilità.
Alle nuove modalità di espressione, a quelle che scardinano i luoghi comuni, a quelle che utilizzano altri punti di vista, a quelle che pongono strade alternative abbiamo fatto ricorso in questa nuova uscita della rivista che ha voluto interrogarsi sugli approcci dei canoni alle grandi tematiche dell’oggi. Dalla bolla che è diventata internet, ai cambi di direzione e alle danze del tempo, alla danza che scandisce nuovi ritmi e detta nuove forme, all’uovo di Amleto per rappresentare un mondo dove tutto sembra quello che non è e dove l’unico modo di agire sembrerebbe essere il non esserci, all’arte dall’estro sconfinato, alle parole sulla poetica bellezza, al cibo che ci nutre e ci fa star bene. Intorno a tutto questo abbiamo costruito il nostro ragionare immaginando quei canoni che, pur rappresentando punti di partenza e impalcature fondamentali, possono essere ripensati, ridisegnati, riscritti. Ci siamo affacciati e abbiamo visto che possono senz’altro esserci nuove forme che, trasfigurate, acquisiscono nuovi significati.
«Castigare i costumi ridendo non è dote di tutti; o bisogna convenire che le maschere in ogni tempo hanno saputo assumersi questo mandato, cercando di migliorare gli uomini, senza annoiarli con i loro ammonimenti».
Eva Bonitatibus
*le immagini sono tratte dal sito http://www.cartesio-episteme.net/var5/map/map-6.htm