Il suo libro non parla solo di cucina, di ricette e di cibo. Va oltre. Il suo libro utilizza la metafora del cibo per dire che la felicità è un piatto di pochi ed essenziali ingredienti. Quali sono?
Non ho la presunzione di possedere o di dispensare ricette per raggiungere la felicità universale. Nel mio libro esploro, attraverso un viaggio nelle cucine delle persone e dei luoghi che ho amato, la ricerca di felicità. La mia risiede ostinatamente nella creazione di una famiglia che non è perfetta e non vuole essere un modello per nessuno, ma è la mia. Lungi da me dal voler imporre questo modello a terzi, questo libro è un racconto personale e molto sincero del percorso di un essere umano che cresce in una famiglia in cui la comunicazione sentimentale passa attraverso il cibo e trova in questo filo un nastro di seta in cui avvolgersi tutti e che porta a sentirsi curati, al sicuro e dunque amati. Non c’è per me ambizione più alta di questa.
Nella sua “dispensa” ricca di storie e di farina, cosa non deve mai mancare?
Nella mia dispensa non può mancare la farina, non possono mancare i peperoni cruschi, è un prodotto della mia terra la Basilicata, i legumi per chi arriva all’ultimo momento e non ama molto la carne e per le gelide serate invernali. Ho una dispensa molto molto ricca, la dispensa aiuta al risparmio, alla sopravvivenza, alla gestione dei cibi a lunga conservazione. Ti aiuta a concepire il cibo e la tua cucina in un altro modo.
Il legame tra cibo e luoghi diventa il canale cardinale di scambi culturali che confluiscono nelle sue ricette. Qual è quella che la porta più lontano?
La mia cucina è un mix di culture, di luoghi, di ricette e di ingredienti. Non ho mai pensato che in cucina si debba essere rigidi e che una ricetta non possa essere rivisitata o adattata ai propri gusti. Ed è una piccola grande battaglia che compio in questo libro dove la libertà, l’imperfezione, l’istinto, la fantasia devono prevalere sugli schemi rigidi di chi si arrabbia se nel tiramisù si mette il pavesino anziché il savoiardo, o di chi lotta e si fa la guerra non solo per difendere l’identità di un piatto appropriandosene dell’origine - e questo lo posso comprendere perché c’è una sorta di orgoglio territoriale - ma esiste anche un’elasticità che almeno in cucina deve prevalere. La mia cucina ha molte contaminazioni orientali perché amo per esempio le spezie, amo mixare i sapori.
Qual è quella che le restituisce la sua appartenenza e la sua identità?
Ogni ricetta che ha a che fare con l’acqua, la farina e l’olio mi riporta a casa attraverso una pasta fatta in casa, un pane, i falaoni (o pastizz) lucani. Credo che siano questi i piatti che mi riportano a casa.
È intorno alla tavola che si consumano i momenti più importanti della vita. Qual è il suo posto a tavola?
In cucina ho un grande tavolo e il mio posto è quello più vicino ai fornelli perché sono quella che raramente si può sedere perché “dono” a tavola. Io dico “donare a tavola”, anziché servire.
Si legge una storia importante, fatta di donne, di nonne. Qual è l’eredità che le hanno lasciato?
La più grande eredità delle mie nonne è assolutamente l’amore per la famiglia, che viene tradotta attraverso la cura di ogni suo componente e quindi anche attraverso la cucina.
La sua cucina è piena di voci e di strumenti, quasi fosse un’orchestra, a volte consonanti altre volte dissonanti. Qual è la sua idea di armonia?
C’è armonia tutte le volte che ci si siede a tavola. Per me è sacro quel momento, è una liturgia che parte dalla preparazione di un piatto fino a quando tutti dobbiamo essere seduti alla stessa ora senza tecnologia e senza televisione per raccontarci le nostre vite. È questo un momento a cui tengo tantissimo.
Eva Bonitatibus