Apr 25, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Comunità e Potere

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Una vita sociale sana si trova soltanto, quando nello specchio

di ogni anima la comunità intera trova il suo riflesso,

e quando nella comunità intera le virtù di ognuno vivono.

Rudolf Steiner

Nell’istante in cui nasce la polis, la collocazione della gestione e dell’esercizio del potere è al centro della comunità. Negli ultimi decenni del Novecento si è sviluppato in Italia e in Francia un dibattito sulla categoria di comunità che ha messo in discussione un topos della filosofia contemporanea per il quale essa veniva intesa come la sostanza che connette determinati soggetti tra loro nella condivisione di una comune identità. In questo modo la comunità appariva legata alla figura del “proprio”. Secondo questa declinazione la comunità restava imbrigliata entro i limiti di una appartenenza reciproca. I membri di questa comunità risultavano avere in comune il loro proprio. Contro questo paradigma si ponevano gli scritti di Jean-Luc Nancy, Maurice Blanchot, Giorgio Agamben e Roberto Esposito, per i quali la comunità rimandava a una sorta di alterità costitutiva che la sottraeva a ogni connotazione identitaria. Nella visione di Roberto Esposito nell’etimologia di comunità si annida la sua verità paradossale: comunità è communitas, cum-munus: il munus può avere un triplice significato e rimanda a un dovere, un debito, un dono-da-dare. I soggetti della comunità sono dunque uniti da un obbligo che li rende non completamente padroni di se stessi.[1] In particolare Hobbes sottolineava che, se la relazione tra gli uomini è distruttiva, l’unica via di uscita è la distruzione della relazione stessa, compresa la comunità: in questo, per la prima volta, si delinea “quella piramide del sacrificio” che costituisce il tratto dominante della storia moderna. Ciò che viene sacrificato è il cum, la relazione tra gli uomini, e perciò, in qualche modo, gli uomini stessi che vivono nella rinuncia a convivere.[2]

Ciò che lega i soggetti nella comunità non ha nulla di rassicurante poiché sembra caratterizzarsi come la loro fine, la loro morte. Da questa insidia deriva la tentazione di far fronte al pericolo del munus procedendo alla sua immunizzazione. Immunitas per Esposito è opposto a communitas. Proprio l’opposizione di questi due termini consente al filosofo napoletano di tentare una rilettura del pensiero filosofico sulla comunità.[3]

Agli antipodi di questo paradigma vi è la prospettiva al centro della Politica di Aristotele: a partire dalla famiglia come cellula originaria del vivere comunitario, è per Aristotele evidente che la comunità è pròteron tè fùsei, “viene prima per natura” rispetto al singolo individuo, che è dunque, per sua essenza, animale socievole, politico e comunitario. La comunità esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo. Contrariamente alla visione moderna che con Hobbes pensa l’individuo come prioritario, Aristotele sostiene che quest’ultimo è posto nel mondo già in comunità: essa è la famiglia, la “comunità” (koinonia) originaria. In tale etica della comunità, l’individuo è proiettato nella concretezza dei nessi intersoggettivi e comunitari che fanno di lui uno zoon politikòn, un animale “politico”, “socievole” e “comunitario”. L’esatto opposto, dunque, dell’homo homini lupus battezzato dalla moderna antropologia hobbesiana. Potremo dire che il contrattualismo non a caso si fonda su teorie di “assoggettamento comunitario”. Gli elementi propri del contrattualismo si svilupparono soprattutto nel pensiero politico europeo tra la fine del Cinquecento e la fine del Settecento, combinandosi con le teorie giusnaturalistiche. Centro gravitazionale del contrattualismo è il rapporto tra stato di natura e stato di diritto: lo stato di natura è condizione propria dell'umanità alle sue origini, da cui gli uomini sarebbero usciti in virtù di un contratto, ossia di un accordo tacito o esplicito, al quale viene pertanto ricondotta l'origine della società e del potere politico. L'idea del contratto, centrale nel pensiero di  Hobbes, segna l'uscita da uno stato di natura, inteso come stato di guerra tra gli uomini, attraverso la cessione di tutti i diritti individuali all'autorità politica; ripreso e traslato poi da Locke per il quale la cessione di alcuni diritti è intesa come garanzia per la tutela dei diritti fondamentali e inalienabili alla libertà e alla proprietà; e rivisitato da Jean-Jacques Rousseau per il quale dal contratto deriva la volontà generale, in cui si esprime la sovranità del corpo sociale. Hobbes non a caso è individuato da Esposito come paradigma del tentativo nella filosofia moderna di immunizzazione della comunità, di sottrazione di ciò che ha di più intimo. [4] L’antropologia hobbesiana è una reazione alla perturbante caratterizzazione del cum: la paura è al principio della politica. Perché gli uomini nello stato di natura temono la morte. Essa è collegata al timore atavico per l’autoconservazione. Ma la comunità è, nella sua fondatezza, manifestazione e garanzia del potere sociale. La comunità si fonda sul principio di auto-conservazione il quale rende esplicabile l’esercizio del potere. Nelle comunità antiche, il potere rappresentava il principio di forza manifesto. Successivamente il potere, strutturandosi progressivamente, tende a celarsi gradualmente nel sistema: si infiltra nei corpi e dunque nelle vite. Canetti scriveva del potere nei suoi termini ‘eterni’, interessandosi ai suoi aspetti ricorrenti; Foucault lo analizza nei suoi termini storici, attento alle sue continue mutazioni. Le procedure del controllo, dell’assoggettamento del potere e del disciplinamento inaugurano il tempo della biopolitica. Sorvegliare e punire irrompe non solo come dictum di una forza dell’ordine ma come un saggio di anatomia politica, nel quale Foucault individua quelle forze di potere da cui derivano delle precise configurazioni di imperio. Se la monarchia mirava a costruire sudditi, se la disciplina aveva nell’individuo il suo bersaglio, il biopotere si rivolge alla popolazione, ai corpi. Come la disciplina, il biopotere mette in atto strategie per massimizzare le forze ed estrarle dagli individui, ma la prima attraverso la funzione normalizzatrice, la seconda attraverso la funzione di regolamentazione. Il biopotere non soppianta la disciplina, ma si integra ad essa, così come retaggi di sovranità continuano a ritrovarsi nella morfologia dello stato moderno.[5] Pier Paolo Pasolini sulla biopolitica, si esprime al pari dei filosofi e Esposito, in una intervista, lo ricorda così: «pur non usando quel termine, l’intera opera di Pasolini è interpretabile come un continuo confronto tra vita, politica e arte. La sua stessa vita, e anche la sua morte, sono state intese da alcuni come un’opera, la sua opera più grande. L’ultimo suo, straordinario, film, ‘Salò-Sade’, può essere visto come il culmine della tanatopolitica, vale a dire di una biopolitica rovesciata e corrotta nel suo opposto assoluto – politica della morte».[6] Pasolini intuì il passaggio dal regime politico della “statalizzazione del biologico” a quello dell’imprenditorializzazione della vita. Esiste una frase ne La vita degli uomini infami dove Foucault avverte un limite nella propria concezione del potere e propone un rimedio. Superare la linea del potere significa raggiungere un terreno dove l’esistenza è già data, ma non il modo in cui essa è determinabile. Non lo può essere dal potere che non tutto può catturare. Bisogna, al contrario, parlare del potere partendo da un terreno che è di tutti. Se di “biopolitica” in Pasolini è possibile parlare, come fa Voza, e con lui Roberto Esposito in Pensiero vivente, è nel superamento del confine del potere, lì dove la vita è mezzo di sé stessa e, per questa ragione, diventa il modo di una contestazione possibile.

Come coniugare dunque comunità e potere senza incorrere in una subordinazione alienante e disumanizzante o ancor peggio dittatoria? Hannah Arendt potrebbe offrirci una visione positiva del potere in quanto definito in Vita Activa come azione. “Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono”  la Arendt che analizza l’agire dell’uomo in quanto possibilità di armonia intra-umana, riporta al centro della visione filosofica l’azione nel suo significato politico. Se i totalitarismi nella loro smisuratezza e atrocità hanno dissipato ogni limite nella dimensione del comune, lo sforzo arendtiano è quello di ricostruire il senso kantiano del limite, condizione sufficiente (e necessaria) per la politica e la libertà. Dunque la condizione di natalità, dell’essere nati, dell’essere un e-vento e un inizio diviene la categoria centrale del pensiero politico e dell’iniziazione al potere.  Attraverso l’analisi della prassi aristotelica, contrapponendosi all’antropologia gehleniana, la Arendt pone nelle rivoluzioni la massima manifestazione del potere. E da sempre le rivoluzioni sono fatte dal popolo, dalla comunità. E dunque comunità è potere solo nel momento in cui il popolo agisce.[8]

Siamo quindi in un tempo in cui la comunità-è-potere e il potere sostiene il diritto ad essere comunità? A seguito di queste brevi considerazioni, l’uomo d’oggi sembra ancora imbrigliato in un individualismo alienante e la nuova epidemia Covid-19 avrebbe dovuto, arendtianamente, far da trampolino per una vera rivoluzione social-politica, ma ahimè Zaratustra sta ancora annunciando la morte di Dio, e non si ha ancora buon udito per comprenderla.

Concetta Vaglio

[1] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 1998, 2006, pp. X-XIII.

[2] Ibidem, p. XIII

[3] Ivi.

[4] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 1998, 2006

[5] Per approfondimenti: M. Foucault, Sorvegliare e punire, nascita della prigione; Storia della sessualità; Nascita della biopolitica, Feltrinelli.

[6] https://www.ilfoglio.it/filosofeggio-dunque-sono/2019/05/06/news/roberto-esposito-il-pensiero-istituente-253038/

[7] Hannah Arendt in Vita activa, p. 147

[8] C. Vaglio, Hannah Arendt. Il potere come azione, in I luoghi e le forme del potere, BUP, 2019.

Concetta Vaglio

"Dottore di Ricerca (in fieri) in Filosofia presso Unibas. 

Affascinata dalla bellezza del mondo, amo l’arte, la letteratura, il cinema, la musica.. contemplo ogni minuscolo angolo di mondo perché credo che la bellezza risieda negli occhi con i quali si guarda..

Amo viaggiare, scoprire “il nuovo” dentro e fuori..

Sposto continuamente in avanti il limite e ne analizzo la soglia! 

Penso ed esisto, provo a giudicare il giusto e cerco emozioni in ogni momento  della mia vita! 

Il filosofo d’altronde è colui che “costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera e sogna cose straordinarie.”

Nietzsche

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