Apr 20, 2024 Last Updated 9:23 AM, Dec 12, 2023

Il Punto di rottura di Steve Jobs ed il mocio di Joy

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joyJoy

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L'autentica scalata imprenditoriale di Joy Mangano, la donna che ha creato un impero dal nulla, e l'immaginario cinematografico a metà tra melodramma e working class movie. Come nella finzione, tocca che la Lawrence faccia da tutto da sola e non le difettano certo capacità e versatilità, ma l'occasione è sostanzialmente mancata.

Joy è una Cenerentola moderna: sogna un principe, ha una sorellastra che non perde occasione per denigrarla, e passa gran parte della giornata con le ginocchia a terra, a passare lo straccio sul pavimento. Sarà proprio il brevetto di un mocio a portarla dalle stalle alle stelle, ma la strada sarà tutta in salita, costellata di tradimenti, delusioni e umiliazioni, un po' come nelle soap opera che la madre, malata immaginaria, guarda giorno e notte, confondendo il sonno di Joy e annullando il confine tra fantasia e realtà

 

 

Point Break

pointBreak


Johnny Utah è un nome noto tra gli youtubers appassionati di sport estremi. È famoso per non aver mai avuto paura di nulla e per la tragedia che lo ha colpito e allontanato dal giro. Spinto dalla volontà di entrare nel FBI, per dimostrare le proprie capacità investigative, Johnny ritorna nell'ambiente e riesce a farsi coinvolgere dal gruppo di atleti estremi capeggiato da Bodhi. È convinto che siano loro i responsabili di alcune tra le più spettacolari rapine degli ultimi tempi, così come è convinto di aver intuito il loro piano: portare a compimento le "otto prove di Ozaki", un percorso verso l'illuminazione spirituale che spinge la sfida fisica oltre gli umani limiti.
Armato solo di una camicia a scacchi, Johnny parte per scalare a mani nude le Angel Falls venezuelane, acchiappare le onde del decennio a Maui e volare in wingsuit dentro il vuoto pneumatico di una lunga sequenza-chiave. {youtube}v=2j6JQNnlCZU{/youtube}

 

 

Steve Jobs

steveJobs

È il 1984 e manca pochissimo al lancio del primo Macintosh. Poi sarà la volta del NeXT nel 1988 e del iMac nel '98. Scortato dal suo braccio destro, la fedelissima Joanna Hoffman, nel backstage che muta col mutare dei decenni e dei costumi, Steve Jobs affronta gli imprevisti dell'ultimo minuto, immancabili contrattempi che si presentano sotto forma di esseri umani e rispondono al nome di Lisa, sua figlia, di Chrisann Brennan, la madre di Lisa, Steve Wozniak, il partner dei leggendari inizi nel garage di Los Altos, John Sculley, CEO Apple, Andy Hertzfeld, ingegnere del software.
Non poteva non dotarsi di un perfetto design strutturale, ovvero di un'eccellente e funzionale idea "grafica", il film di Danny Boyle sull'imprenditore visionario che ha inventato il mouse, le icone, l'iPhone, l'iPod e l'iPad, incarnando una concezione dell'innovazione che non inseguiva mai l'omologazione ma santificava l'anomalia. E non poteva non parlare, come tutto il cinema di Boyle, di un caso di "campo di distorsione della realtà", per usare le parole del biografo di Jobs, Walter Isaacson, a cui si ispira liberamente il film. Ma non è distorcendo le immagini, come ha fatto in passato, che Boyle poteva raccontare questa storia: per sorprenderci andavano rovesciate le carte in tavola e ci voleva un grande drammaturgo, un Aaron Sorkin, per esempio.
Birbante intelligenza, anziché annoiarci con il racconto a tutti già noto di un successo professionale accompagnato da una serie di insuccessi sul fronte umano e personale, Sorkin racconta appunto il contrario: un successo umano, ottenuto faticosamente, attraversando anni di insuccessi professionali, aspettative frustrate, persino umiliazioni pubbliche. Certo, Jobs è testardo, arrogante, sfruttatore, "incompatibile" con il resto del mondo, e non c'è bisogno di rettificare: consapevole delle sue debolezze, saldo nei suoi difetti, solo così il ritratto di Steve Jobs è quello di un essere umano, imperfetto come ogni altro, creatore, però, di prodotti imperituri, senza peccato originale. In questa consapevolezza dei propri limiti morali e comportamentali, che Sorkin affida al protagonista del racconto, c'è quasi un'idea di sacrificio, per cui il leader rinuncia all'umana comprensione e al gradimento del popolo per lasciare un segno nella storia, a beneficio dei posteri. Cresceranno e capiranno, come Lisa, che assurge così a emblema dello spettatore critico, destinato a cedere al fascino dell'intelligenza al lavoro.
Ambientato interamente dietro le quinte, Steve Jobs ci illude magicamente di entrare a conoscenza di un retroscena mitizzato, dove le dure parole degli amici vanno effettivamente a segno dietro le lenti di Fassbender, anche se non c'è il tempo di leccare la ferita, e dove pagare una follia per smussare gli angoli di un cubo di plastica è una questione vitale, perché incarna quell'idea di bellezza e di "moto all'uomo" che Windows non ha mai contemplato (geniale la stringa di dialogo con la quale Jobs liquida lo schematismo del sistema operativo concorrente). Così facendo, il film racconta davvero, con più sapienza che retorica, un direttore d'orchestra, e non lascia che la metafora resti una frase vuota, ad uso di critici cinematografici senza fantasia. Racconta un artista la cui personalità fa la differenza; qualcuno che possiede tanto la tecnica quanto la capacità interpretativa e sa alla fine far suonare ogni singolo strumento in accordo con la propria concezione generale dell'opera d'arte.

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L'abbiamo fatta grossa

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Arturo è un investigatore privato così male in arnese da inseguire i gatti scappati dalle case altrui e da abitare presso una vecchia zia col mito del marito defunto. Yuri è un attore di teatro che, da quando la moglie l'ha lasciato, non ricorda più le battute: dunque si ritrova disoccupato e senza un soldo. Le strade di Arturo e Yuri si incontrano quando l'attore chiede all'investigatore privato di pedinare per lui l'ex moglie e il suo nuovo compagno. Ma quando i due macapitati, invece di registrare una conversazione fra i due innamorati, intercettano un dialogo ambiguo e fuorviante le cose si ingarbugliano e si innesca un gioco degli equivoci che costringerà la "strana coppia" Arturo-Yuri a rocambolesche avventure e improbabili travestimenti.
Carlo Verdone si lancia in questo nuovo progetto, da lui diretto, interpretato e sceneggiato insieme a Pasquale Plastino e alla new entry (per un film di Verdone) Massimo Gaudioso, assicurandosi che la commedia nasca più dalle situazioni che dalla capacità dei due attori protagonisti di creare gag e improvvisazioni comiche. Sarebbe una buona idea, se non ci fosse una sorta di vizio di forma: Verdone e Albanese, fisicamente, sono molto simili (a cominciare dal fatto che entrambi "non usano il phon dal 1982"), e la sceneggiatura avrebbe dovuto fare ampiamente leva su questa somiglianza per creare un rapporto a specchio fra due opposti, in cui uno fosse il dark side dell'altro. Invece la comicità dei due, con qualche variante regionale, è uniformemente segnata dalla stessa vena maliconica (intuibile fin dalla musica che accompagna i titoli di testa) e la costruzione dei due personaggi non è abbastanza polarizzata, né abbastanza sovrapponibile: i due non sono né contrari, né identici (anche se declinati in modo diverso).
Anche la professione di Yuri non viene sufficientemente utilizzata a scopo comico: ci si aspetterebbe che Yuri si butti a capofitto nelle incarnazioni che l'equivoco di volta in volta richiede, invece è Arturo quello più pirotecnico e pronto a improvvisare. Il risultato è che Verdone, qui in grande forma comica, giganteggia su Albanese, che finisce per apparire come la spalla del comico romano. E Verdone una spalla nel film ce l'ha già, molto più efficace: è la giunonica Lena, interpretata dalla cantante lirica armena Anna Kasyan, vera scoperta del film. Kasyan ha tempi impeccabili, un'esuberanza e una comicità fisica istintive che travolgono immancabilmente Arturo-Carlo, ben felice di lasciarsi investire, o di opporre al fiume in piena della donna il suo miglior cialtrone e il suo miglior nevrotico. La trama è divertente ma non raggiunge mai l'effetto valanga comico che una farsa, come dovrebbe essere questa, ha bisogno per sfondare, e si limita a farci sorridere per l'Arturo reminescente del Sergio di Borotalco (quello del "cargo battente bandiera liberiana") o per lo Yuri che chiede "scusissima" a tutti. Solo negli ultimi venti minuti il film diventa quello che avrebbe potuto essere: una satira dolente e assai politica dell'Italia di oggi, in cui le brave persone si muovono con difficoltà sempre crescenti. Straziante (e ficcantissimo) l'elenco delle cose che Yuri e Arturo farebbero se avessero un po' più di denaro, amarissima la loro rivincita finale sul cinismo del mondo, quel mondo in cui la maggior parte della gente non ha mai visto un pezzo da 500 euro, così che chi ne maneggia a centinaia ha campo libero per fregare tutti gli altri.

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The Hateful Eight   l' 8° film di Tarantino

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Lungo i sentieri rocciosi del Wyoming, una diligenza corre più forte del vento. Un vento che promette furia e tempesta. Ultima corsa per Red Rock, la diligenza si arresta davanti al Maggiore Marquis Warren, diligence stopper e cacciatore di taglie nero che ha servito la causa dell'Unione. Ospitato con riserva da John Ruth, bounty hunter che crede nella giustizia, meno negli uomini, Warren lo rassicura sulle sue buone intenzioni. Il viaggio riprende ma il caratteraccio di Daisy Domergue, canaglia in gonnella condotta alla forca, lo interrompe di nuovo. La sosta imprevista incontra e carica tra chiacchiere e scetticismo Chris Mannix, un sudista rinnegato promosso sceriffo di Red Rock. Incalzati dal blizzard, trovano rifugio nell'emporio di Minnie dove li attendono un caffè caldo e quattro sconosciuti. Interrogati a turno dal diffidente John Ruth probabilmente nessuno è chi dice di essere.
Secondo western e ottavo film per Quentin Tarantino, The Hateful Eight è ossessionato dalla nozione di identità, reale o supposta dei suoi personaggi e di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale.

The Hateful Eight assicura che l'Ultra Panavision 70, glorificazione dello spazio orizzontale, può 'servire' otto bastardi in un interno. Perché Tarantino sceglie di ripristinare un formato abbandonato nel 1966 non tanto e non solo per distendere i paesaggi del Wyoming ma per filmare le interazioni degli attori dentro uno spazio chiuso. Riparati in un rifugio e disposti come pedine su una scacchiera, gli otto hateful di Tarantino agiscono in primo piano e sullo sfondo.

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Vito Coviello

informatico per caso...

Cerco da anni di essere chi sono...

sicuramente ambizioso, e pronto a scalare montagne, sono semplicemente umano.

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