Giornalista pubblicista, batterista sconveniente.
Leggo. Mi incuriosisce la fisica quantistica. Mi piace il jazz. Scrivo in privato, uso il Garamond. Credo nella sezione aurea, nell’entanglement, nel dualismo onda particella. Preferisco i film francesi, i cibi semplici, le persone semplici, i problemi semplici.
Il mio orario del cuore sono le cinque e venti. Detesto usare Domodossola nel gioco “Nomi, cose, città” e vivrei volentieri a Londra, Parigi e Roma, come la maggior parte delle vallette degli illusionisti. Fin da ragazzo ho l’età che descrive J. L. Borges in Limites. Se non svolgessi un lavoro in ambito giuridico legale, probabilmente avrei voluto essere quello che fischia nella canzone Lovely head dei Goldfrapp.
In un giorno dell’aprile del 1860, il signor Édouard-Léon Scott de Martinville incideva la propria voce su un foglio di carta brunito dal nerofumo.
Come molti di quelli che non ci sono mai stati, conosco il Giappone per aver visto qualche pellicola di Akira Kurosawa o di Takeshi Kitano o, soprattutto, per aver letto, immancabilmente, con tutta la riflessione possibile, L’impero dei segni di Roland Barthes.
Occhi aperti. Quattro e venti. Buio. Cinque. Lampadina dodici watt sui fuochi. Clic.
Comodo nella curvatura inversa dello spazio tempo che ha come fulcro la poltrona di cuoio nel salottino di attesa,
Quando mi trovai di fronte gli altissimi scaffali, ridondanti di dorsi però vivacemente colorati, e la vasta superficie degli espositori orizzontali, dove gli albi e i volumi erano sistemati come vinili in profonde cassettine di legno, appena entrato nel reparto delle bandes dessinées,