Giornalista pubblicista
I libri sono la mia perdizione. Amo ascoltare le storie e amo scriverle. Ma il mio sguardo curioso si rivolge ovunque, purché attinga bellezza e raffinatezza.
La musica è il mio alveo, l’arte la mia prospettiva, la danza il mio riferimento. Inguaribile sognatrice, penso ancora che arriverà un domani…
Ancora sulla mamma. E’ il mese di maggio che lo richiede. E’ il desiderio di esternare ancora una volta il sentimento di gratitudine nei loro confronti. Non sono una mammona, ma sono una mamma e quando diventi madre cambia la tua posizione di figlia. E’ una questione di prospettive, muta lo sguardo ed il pensiero, da centro dell’attenzione diventi polo d’attrazione perché i figli ti gravitano intorno senza mai distaccarsi del tutto. Il pensiero sulle mamme mi è stato sollecitato più volte in queste due ultime settimane grazie alle pagine di alcuni libri: ho incontrato una mamma a cui hanno ucciso il figlio ed ho incontrato un figlio che ha perso una mamma. Ecco, le due prospettive. La prima è la protagonista di una brutta storia accaduta ormai quasi trent’anni fa in Basilicata e ricostruita in un libro presentato alcuni giorni or sono a Potenza. Aspettando giustizia è il titolo, che racchiude già il senso della storia, scritto da Angelo Jannone, colonnello dei Carabinieri in congedo e pubblicato da Secop edizioni. Il romanzo racconta la tragica scomparsa di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, due ragazzi di appena vent’anni, trovati morti nella vasca da bagno di casa della ragazza nel lontano 1988. Da allora non è mai stato trovato il colpevole, il caso venne archiviato come incidente causato da folgorazione e dopo tre decenni la mamma di Luca piange suo figlio senza sapere perché sia morto e chi lo abbia ucciso. Una storia che racconta le omissioni compiute da un’investigazione frettolosa e approssimativa, un libro che descrive le pene patite dai genitori di questo ragazzo. Ed ho conosciuto Olimpia, la mamma di Luca, una donna piccina di statura ma immensa nell’anima. Un angelo in terra perché sopravvivere ad un simile dolore non è umano. E lei ha ancora la forza di lottare, nonostante le bugie e i maltrattamenti e le ingiurie e la menomazione. Si, perché perdere un figlio è una menomazione. E’ come non avere più una parte del proprio corpo. Ma lei è grande perché ha Luca dentro di sé che le da l’energia per andare avanti e lei lo ascolta, lo asseconda, parla di lui ovunque. “E’ un modo per tenerlo in vita”, ha detto. Si commuove, piange, ma non smette di raccontarlo a noialtri che fatichiamo a trattenere il pianto. Il suo dolore diventa il nostro, e l’affetto delle persone, dei ragazzi soprattutto, le asciuga per un po’ le lacrime. E i suoi piccoli occhi celesti tornano a sorridere.
La seconda storia invece è legata ai ricordi di un figlio che ha preso la via del mare alla ricerca dell’armonia interiore. Lui si chiama Roberto Soldatini, è un violoncellista famoso, direttore d’orchestra, compositore e docente di musica, alla sua seconda prova con la scrittura. Sinfonie mediterranee è il titolo del libro presentato a Gocce d’autore la scorsa settimana, edito da Nutrimenti Mare, in cui l’autore racconta le tappe del suo viaggio nel Mediterraneo a bordo della sua barca-casa lunga 15 metri. Una sorta di diario di bordo che svela la bellezza dei luoghi visitati, gli imprevisti della navigazione, il gusto per la sfida. In solitaria assoluta Roberto Soldatini solca i mari per sei mesi e annota i suoi sentimenti e le sue considerazioni nei suoi libri. Riaffiorano i ricordi e si riaprono le ferite. La mamma in quel luogo di tanti anni prima. E’ ancora lì, ad Amalfi, col suo cappotto tortora a guardare le onde che s’infrangono sugli scogli. E la nostalgia prende il sopravvento con tutta la rabbia che sente ancora dentro perché due mesi più tardi un tumore se la porterà via per sempre. Ma lui è un altro angelo sulla terra che sopporta il dolore e va avanti. La sua musica è la sua medicina, il mare la sua culla.
Sono storie di ordinaria sofferenza? Non so, non so se la sofferenza possa definirsi ordinaria. Non si è mai pronti a soffrire, la sofferenza ti coglie impreparato punto e basta. E allora da madre e da figlia mi chiedo: è la lotta per rimanere vivi che ci tiene in piedi, o è la brama di una serenità dimenticata? Anelo un orizzonte di salvezza!
Eva Bonitatibus
C’era una volta…L’immaginario collettivo vuole che siano le mamme a raccontare le favole ai propri bambini nei vari momenti della giornata. La sera prima di metterli a letto, oppure il pomeriggio, per distoglierli dalla televisione, e anche la mattina, durante la prima colazione. Tante le ore che le madri di tutto il mondo e di tutte le generazioni hanno dedicato e dedicano a questa pratica ipnotica che ha il potere di sedare i bambini e di condurli nei luoghi della fantasia con il solo uso delle parole e della voce. Oggi vorrei leggere io una favola alle nostre mamme, una storia bellissima che ho conosciuto solo di recente grazie ad una mostra fotografica sulle popolazioni Tuareg che ho visitato presso la Galleria civica di Potenza.
La protagonista di questa favola è una donna, Tin Hinan, figlia del re e della regina del regno di Tafilatet, in Marocco. Come tutte le principesse, Tin Hinan era bella, alta, slanciata “come il lungo collo dei cammelli e con gli occhi grandi e dolci come il frutto del mandorlo”. Dal padre aveva appreso l’arte di governare il paese in pace e dalla madre tutte le arti che si addicono ad una donna. Come spesso accade, però, un cugino cattivo ed invidioso imprigionò il re e la regina e si impossessò del regno. Tin Hinan fece in tempo a fuggire insieme alla sua ancella Takamat e attraversò tra mille peripezie e numerosi stenti tutto il deserto del Sahara. Caldo di giorno, freddo di notte, le due sventurate fanciulle riuscirono a giungere ad una piccola oasi sfidando la fame, la sete, la paura e la stanchezza. Ad Abalessa, questo il nome del piccolo villaggio, c’erano alcune capanne abitate da uomini e donne che coltivavano piccoli appezzamenti di terra. C’erano anche cammelli e capre ad assicurare loro sostentamento e aiuto. Questo popolo, però, non conosceva la civiltà ma accolse la principessa e la sua ancella con calore. Tin Hinan ricambiò l’ospitalità insegnando loro a leggere e a scrivere il Tifinagh, un alfabeto di antichissima origine, a lavorare la creta, a tessere e a dipingere le stoffe, a riconoscere le piante utili per curarsi. In breve tempo la piccola oasi divenne un villaggio pieno di vita e la principessa ne divenne la regina. Dalle sue figlie nacque il popolo Tuareg che ancora oggi vive in gruppi a nord del Niger.
Tin Hinan fu molto amata dal popolo e quando morì venne sepolta vicino all’oasi con un monumento alto trenta metri realizzato con le pietre che il popolo Tuareg depose in segno di rispetto. Definita la “madre di tutti noi”, Tin Hinan è davvero esistita tre secoli prima che nascesse l’Islam e a lei sono ispirati romanzi e produzioni cinematografiche. Ciò che colpisce è il ruolo centrale della donna in una società antichissima contrariamente agli usi delle altre popolazioni islamiche. Le donne Tuareg non si velavano, a differenza degli uomini, avevano una libertà di costumi impensabile ed erano titolari del diritto di trasmettere il potere ai capi supremi per via matrilineare. La favola che vi ho raccontato si intitola La leggenda di Tin Hinan, regina dei Tuareg, è stata scritta da Rossella Grenci con le illustrazioni di Tatiana Martino, edita dalla casa editrice Mammeoline. Il libro è molto bello, la copertina rigida reca il ritratto della regina del Sahara e l’interno è tutto un viaggiare tra parole e immagini. Il viaggio che propone è dei più belli perché avvolto dal fascino del mistero e perché racconta di un’eroina leggendaria che è riuscita a costruire il proprio governo sui granelli di una sabbia mai erosa dal tempo. Proprio come le nostre mamme, eroine di fatiche leggendarie, che dobbiamo coccolare anche leggendo queste piccole favole. Perché tornino a sognare e perché splenda più che mai il loro sorriso.
Eva Bonitatibus
Alle madri di tutto il mondo vorrei dedicare questi brevi pensieri. Esposte alle atroci intemperie della vita, le madri sono querce, rocce, vette impossibili da scalare. Sopraffatte dalle angosce delle pene, le madri sono petali, albe e abbracci in cui sprofondare per scalare le creste più impervie. Alle madri che oggi piangono i loro figli vorrei provare ad asciugare le lacrime dicendo loro di trarre forza dalla disperazione per provare a costruire nuove dimensioni. Inconsolabile è il loro dolore, e difficile è trovare le parole giuste. E faccio appello a chi le parole le ha sapute usate per lenire piaghe e ricucire ferite. Pierpaolo Pasolini nella “Supplica a mia madre” scrisse:
E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Madri che viaggiano in un sol pensiero, i loro volti hanno la purezza delle vite rinfrescate ai mille mattini dei sacrifici. Sacrifici dal sorriso sulle labbra sempre, nonostante il peso sulle spalle e nel cuore. Un macigno grande così, che loro, soltanto loro, sono avvezze a portare. Madri non piangete se i vostri figli hanno scelto una strada diversa, se la loro fragilità è stata più forte, la speranza è che ora la loro anima sia dentro di voi.
“… Tu sei di tua madre lo specchio,
ed ella in te rivive
il dolce aprile del fior
dei suoi anni…” (William Shakespeare)
Madri vangelo, matrici del paradiso, voi ci avete insegnato a camminare, ci avete nutrito, ci avete detto come si fa ad amare. Ci avete preso per mano e condotto per le strade del mondo. Non piangete ora che siete rimaste da sole. Il corpo è solo un’ombra, è l’ anima che preserva la sua immortalità, la morte è la via che conduce ad una vita eterna diversa da quella terrena. E’ come nelle fiabe, dice la scrittrice statunitense Audrey Niffenegger: sono sempre i bambini che hanno le avventure più belle. Le madri devono restare a casa e aspettare il ritorno dei bambini che sono volati via dalla finestra. E prima o poi, in modi diversi, ritornano nel ventre materno.
Eva Bonitatibus
“Una cosa è certa: ci siamo divertiti tutti leggendo…quale migliore celebrazione del libro?” (Elda Rizzitelli)
La scrittura di Stephen King è fenomenale. Non vedi l’ora di voltare pagina perché i suoi libri ti catturano e ti avvincono. Il bazar dei brutti sogni edito da Sperling & Kupfer è una raccolta di racconti vecchi e nuovi alcuni dei quali pubblicati in precedenti opere, altri assolutamente inediti. Varie le storie che hanno come comune denominatore l’inverosimile, caratteristica della narrativa fantastica, che consente al lettore di stupirsi e di atterrirsi. Il rischio è di non dormire la notte, ma agli amanti del genere non preoccupa. Anzi, sembra essere questo lo stimolo alla lettura di uno dei più grandi maestri dell’horror. Il bazar si è legge a perdifiato, passando da un racconto ad un altro senza riuscire a distoglierne lo sguardo, quasi come se una calamita ti tenesse attaccato alle pagine, come se una mano invisibile ti tenesse il capo bloccato sulle parole. Insomma si instaura uno strano rapporto tra lo scrittore e il lettore, salutato peraltro nell’introduzione dallo stesso King. Da brivido. “Ho preparato un po’ di cose per te”, dice in apertura, e poi più avanti “Forza. Siediti accanto a me. Avvicinati. Tanto non mordo. Però…ci conosciamo da secoli e forse sai che non è proprio vero. O mi sbaglio?”.
Al netto della paura, è un incipit che fa tremare le mani al lettore. Che però accetta la sfida e imperterrito, più che impietrito, sprofonda nella poltrona e nelle storie e si lascia condurre in vicende avvincenti e spaventose. Ironia, ferocia, malinconia, amore e paura sono i sentimenti che attraversano le venti storie quasi come se fossero gli ingredienti di una pietanza speciale. Un condimento che rende davvero gustose le venti storie di orrore di cui sembrano andar pazzi gli adolescenti ed in cui l’autore si diverte ad intingere la sua penna famelica.
Si, proprio i quindicenni sembrano trarre un certo divertimento da questo genere di narrativa, un senso dell’humor nero, il tipo migliore secondo King. “Di fronte alla morte si può solo ridere”, dice lo scrittore che accompagna le sue storie con commenti e note autobiografiche, attraverso le quali illustra tempi, modi e motivazioni che hanno portato alla scrittura (o alla riscrittura) di ogni singola storia. 540 pagine di lettura febbricitante in cui Stephen King esplora gli angoli più reconditi e oscuri della mente e dell’animo umano, terreno fertile per l’immaginazione e la produzione dello scrittore americano. Su! Proseguiamo con la lettura, che il Paradiso ci aspetta! Parola di King.
Eva Bonitatibus